D raghi ci è piaciuto e ci piace. Da primo ministro ha fatto quanto gli è stato possibile operando in un Vietnam parlamentare di guerriglia continua: da sinistra le bombe carta dei grilli, da destra le castagnole di Alberto da Giussano. E agguati di varia provenienza disinnescati con il voto di fiducia. Lo avremmo voluto con le mani libere, circondato da ministri di alto livello da lui scelti e non scartine impostegli da partiti riottosi. Riesaminando a mente fredda la sua uscita di scena prende corpo l’ipotesi che si sia sottratto volontariamente alla reclusione dorata di Palazzo Chigi. Qualcuno invece vorrebbe incarcerarvelo a vita: fine pena mai. Ma lui, complice qualche utile idiota che gli ha annodato i lenzuoli, è evaso. Con questa mossa si è sottratto all’incombenza inevitabile di imporre all’Italia una stagione di rinunce, sacrifici, privazioni. Il suo mito, che egli considera la pepita più preziosa del suo patrimonio di credibilità, ne sarebbe uscito appannato. Di lui è rimasta, sospesa nell’aere della politica, la sua agenda: un feticcio che certuni venerano come reliquia. Anche se è immateriale molti fanno finta di tenerla sottobraccio pronti a realizzarne i programmi misteriosi. Chi è riuscito a darle una sbirciatina vi ha trovato due sole frasi: «Fine della corsa. Ora arrangiatevi».

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