È imbarazzante ma la ministra per le Pari opportunità ufficialmente si chiama ministro, anche sul sito del ministero. Sembra uno stupido problema burocratico e in effetti lo è, ma siccome parliamo di una definizione ufficiale per cambiarla, come ha spiegato la stessa ministra Bonetti, servirà una legge.

Appena lo ha detto, da destra è arrivata la classica reazione di chi si oppone ma non sa o non vuole dire perché: in Italia ci sono cose più urgenti. E sicuramente ce ne sono, ma non significa che non si possano fare anche le meno urgenti, mica deve fare tutto la stessa persona. È un po’ come dire: non comprarti i pantaloni nuovi, è più importante che respiri.

Fra l’altro l’ostilità verso la declinazione al femminile di ruoli tradizionalmente maschili arriva dagli stessi ambienti culturali che da anni ci fracassano la pazienza con l’allarme per “l’ideologia gender”. Lo spauracchio è che da un giorno all’altro le persone possano attribuirsi un genere anche se non corrisponde al loro sesso, e che insomma chiunque possa definirsi uomo o donna o quel che gli pare ascoltando la propria identità anziché sbirciare per conferma la propria anatomia.

Ma se la paura è questa, allora che cosa c’è di più gender che decidere il genere di un’altra persona (“Elena Bonetti è un ministro”) ignorando tanto il suo sesso quanto la sua volontà?

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