L’Italia chi amò?
Caffè Scorretto
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F ra i quattro giudici costituzionali eletti ieri dal Parlamento c’è Roberto Cassinelli: nel 2017, come senatore di Forza Italia, ottenne che l’Inno di Mameli venisse ufficialmente riconosciuto come inno nazionale (l’indicazione era arrivata già 60 anni prima da De Gasperi, ma evidentemente mancava un timbro).
Chissà, ora che è assurto alla Consulta magari Cassinelli si spenderà anche perché l’inno venga conosciuto di più e in particolare nella sua forma scritta, visto che in troppi lo hanno solo orecchiato e in certi passaggi tendono a fraintenderlo. Molti non hanno idea, per esempio, che la coorte fosse un’unità militare dell’esercito romano, e quindi vanno a senso e cantano “stringiamoci a corte”. E questo finisce per rafforzare quel sentimento cortigiano, appunto, un po’ vassallo e un po’ scodinzolante che non passa mai d’attualità, è vero, ma in un inno non dovrebbe risuonare. Idem per “l’Italia chiamò”, facilmente fraintendibile in “L’Italia chi amò?” dopo che siamo stati filocinesi con Conte, filorussi col Salvini che scambiava «due Mattarella con mezzo Putin», europeisti con Draghi e ora con Meloni in bilico fra responsabilità europee e tentazioni trumpiane. Sul fatto che “non siam popolo” e che “siam divisi” ci sarebbe poco da equivocare, ma fortunatamente la seconda strofa a parte Cassinelli non la conosce nessuno.