E così il console ucraino a Milano ha chiesto alla Scala di cambiare programmazione e di non inaugurare la stagione con l’opera russa Boris Godunov, per neutralizzare “eventuali elementi propagandistici”. Si potrà dire, con la massima solidarietà verso un popolo aggredito e con la massima comprensione dello stato d’animo che può portare a una richiesta di questo tipo, che si tratta di un errore? In primo luogo dal punto di vista tattico: un’opera che racconta l’ascesa opaca di uno zar, i drammi che il Paese vive sotto il suo regno controverso e infine la sciagura che abbatte il suo trono può fare molto più il gioco di Kiev, eventualmente, che di Mosca. Ma soprattutto perché un’opera - soprattutto se assurta al rango di classico, cioè di creazione di valore riconosciuto, concepita in tutt’altro tempo e non arruolabile sotto le insegne dell’attualità – non fa alcun gioco se non il proprio. Cioè si muove nel campo largo, e alto, di ciò che è umano universalmente e significativo esteticamente.

Putin ha molti, violenti e meschini poteri. Ma non quello di imprigionare l’anima russa, così spesso e giustamente celebrata. Noi invece possiamo esiliarla. Dai nostri teatri e dalle nostre coscienze, dalla nostra curiosità e dalla nostra voglia di capire. A modo suo è anche questo un gesto violento, ma contro chi lo compie.

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