D raghi ha detto no. Non farà più il presidente del Consiglio. Calenda con il sorriso a labbra strette di chi la sa lunga, insinua che quel diniego vale quanto quello di Mattarella, che al primo fischio si voltò e fece marcia indietro. Stare sul Colle, però, non è come stare a Palazzo Chigi, sede del manovratore della macchina. Draghi lo ha fatto per diciotto mesi calandosi in un mondo che solo parzialmente conosceva. E non gli è piaciuto. Avrebbe preferito entrare lui al Quirinale, e ci ha provato. Bocciato, ha continuato a portare la croce in attesa del momento buono per liberarsene. Dimissioni a Roma, statista dell’anno a New York. Ora pare più sereno, sorride spesso, parla come un comune mortale. Talvolta, in qualche sua uscita estemporanea, traspare una vena di perfidia. Sembra stupito che ci sia una lotta senza quartiere, con colpi proibiti, per andare a governare un Paese bisognoso di una cura da lacrime e sangue per uscire da una crisi diventata endemica. Per di più in un quadro internazionale che pare dipinto non da un pittore ma da un imbianchino folle. Prima di uscire di scena il Drago ha inviato un messaggio: «È importante che tutti votino». Diamogli retta, andiamo oggi a votare. Con il buon augurio che i movimenti peristaltici del ventre non prevalgano sull’intelligenza del cervello.

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