S iamo nell’epoca della comunicazione diffusa, chiassosa, irriverente, volgare, persino blasfema. Pare che per dare forza a rivendicazioni anche sacrosante, sia necessario “bucare” lo schermo con qualsiasi mezzo. Sono perciò ammessi falli, perizomi, borchie, oscenità varie o, quanto meno, scelte di dubbio gusto. Una sorta di “il fine giustifica i mezzi”, concetto che, tra l’altro, Machiavelli non ha mai espresso in questi termini. Ora pare che gli influencer e i rapper siano i portatori del verbo. Oddio, il livello del ragionamento è – diciamo così – piuttosto elementare. Basta riempirsi la bocca con la difesa di un diritto inviolabile della persona e il più è fatto. Per condurre una battaglia basta tatuarsi dall’ombelico sino al collo, sconfinando nel viso e nella testa. Servono poi un po’ di piercing qua e là, lo smalto per unghie di colore vivace (vale per gli uomini) e qualche altra amenità. Chissà perché mi viene in mente una ormai lontana manifestazione sindacale a Sassari. Un corteo imponente attraversò le vie della città in difesa di diritti inviolabili: il lavoro, la sicurezza in fabbrica, la dignità delle retribuzioni, la libertà di espressione, di riunione. Cose non scontate nella Sir di Rovelli e in tante altre fabbriche. A guidare il corteo, che sfociò in un comizio in piazza d’Italia, l’allora segretario generale della Cgil, Luciano Lama. Indossava giacca e cravatta.

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