P arafrasando un noto proverbio diciamo che il magistrato perde la toga ma non il vizio. Pier Camillo Davigo ha il vizio del grande inquisitore, un Tomàs de Torquemada dei nostri tempi. Anche lui, come il frate domenicano spagnolo, parte dal presupposto che un inquisito sia colpevole anche se assolto dal tribunale: è uno che è riuscito a farla franca, dice convinto. Alla recente festa del “Fatto quotidiano”, giornale portavoce dei giustizialisti, ha eccitato la platea proponendo questa soluzione all’affollamento delle carceri: non amnistie, non nuove prigioni, ma meno spazio a ogni detenuto. Secondo Pier Camillo i nove metri quadri a individuo concessi dal modello carcerario attuale sono un’esagerazione; ne bastano tre. Del resto un loculo in cimitero ha una dimensione minore e i morti stanno comodi. Davigo è l’ultimo della serie dei pensatori che hanno preso spunto dal panopticon, un carcere ideale progettato dal filosofo Geremia Bentham. Un edificio, metafora di Argo dai cento occhi, incubo dell’ascolto sorveglianza: migliaia di cellette in cerchio controllate da una torre centrale. Michel Foucault, che come altri pensatori prese spunto dal panopticon per riflettere sui sistemi carcerari, sostiene che la pena crudele crea “corpi docili” e proni alla “vendetta del Sovrano di turno”. Oggi crede d’essere di turno un ex magistrato di nome Davigo.

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