A ll’inizio era l’affirmative action. Poi sono arrivati il politicamente corretto, il catechismo woke, la cancel culture e i loro surrogati. Così una nobile idea è andata all’inferno. L’affirmative action, che in lingua italiana trova perfetta e intelligibile traduzione nella locuzione “discriminazione positiva”, è un principio di alta civiltà. Nasce negli Stati Uniti quando Kennedy era presidente. Il suo scopo era ed è il superamento della segregazione razziale e dei pregiudizi nei confronti degli afroamericani. Applicata estensivamente alle varie minoranze, divenne uno strumento di compensazione per le persone svantaggiate per identità etniche, di genere, sessuali e sociali. L’affirmative action rovescia il concetto della discriminazione, che da fattore negativo diventa positivo. Tutto bene se si fosse operato entro questo binario. Invece una minoranza politica di guastatori, approfittando del lassismo della maggioranza cosiddetta benpensante, ne ha causato il deragliamento. Sono nati negli Stati Uniti i talebani del woke, che dell’affirmative action hanno fatto un’arma di lotta politica. Una degenerazione che è dilagata anche in Europa originando un clima di sospetto nei confronti di chi non si adegua a un nuovo linguaggio e a una rovesciata visione della Storia. Attento a come parli, il woke ti ascolta.

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