A ver lasciato la figlia di 18 mesi da sola, a morire di fame e di sete, per passare sei giorni col partner a molti chilometri da casa: l’episodio costato l’ergastolo ad Alessia Pifferi è di una semplicità terribile, si racconta in poche parole. Perciò che ieri la parte civile ne abbia voluto aggiungere un’altra, additando Pifferi alla corte come una madre “lussuriosa”, è una cosa che stupisce. Intanto perché ci fa riesumare quel termine nelle nostre cronache, dove da tempo non si parla più di lussuria ma casomai della sua gemella emancipata, la libido, generalmente per denunciarne desolati il calo. Ma stupisce soprattutto perché un’aula di giustizia dovrebbe essere un ambito laico per eccellenza, dove si discute di reati, mentre la lussuria è notoriamente un peccato. Caricare una contestazione penale di una sfumatura religiosa è un cortocircuito interessante, suona come chiedere per un cannibale l’aggravante di aver ceduto alla gola. Sarebbe stato diverso se la madre avesse trascorso quei sei giorni a un convegno? Accusarla di aver fatto morire la figlia per egoismo non faceva abbastanza impressione?

Non sarà che magari ne faceva troppa, e bisognava rassicurare la comunità tracciando un confine netto, catechistico, fra noi e quella sporcacciona che non a caso è un’infanticida, quell’infanticida che non a caso è una sporcacciona?

© Riproduzione riservata