U n vecchio amico mi ha scritto: «Ogni sabato santo mi tornano alla mente alcuni versi di una delle più splendide poesie di Giosuè Carducci: “… le campane sonavano su dal castello annunziando Cristo tornate dimane a’ suoi cieli; e su le cime e al piano, per l’aure, pe’ rami, per l’acque, correa la melodia spiritale di primavera; ed i peschi ed i meli tutti eran fior bianchi e vermigli, e fior gialli e turchini ridea tutta l’erba al di sotto, ed il trifoglio rosso vestiva i declivi de’ prati, e molli d’auree ginestre si paravano i colli, e un’aura dolce movendo quei fiori e gli odori veniva giù dal mare …”. È questa la Pasqua della mia infanzia, la Pasqua che riposa nei fondali di una dolce memoria. Pasqua vuol dire anche primavera, risveglio, resurrezione. Da quel sepolcro riesplose la vita. Per Pasqua si stava in città, in paese, nel borgo. Era una Pasqua intima, non so se dire più felice di quella globalizzata di oggi, stressante in un mordi e fuggi da un continente all’altro su jet e navi da crociera. Solo divertimento. La Pasqua ha perso il suo senso religioso, è diventata festa profana da celebrare persino in esotiche e lontane isole. La mia Isola di Pasqua è la Sardegna, con il suo vento mediterraneo, la sua luce primaverile, i suoi riti sacri e pagani. Antiche stagioni di vita … Buona Pasqua».

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