«S ’io fossi Silvio – mi ha detto argutamente il mio amico Remigio - notificherei ufficialmente che non voglio essere eletto presidente della Repubblica. Mi dichiarerei soddisfatto e appagato del parlottio che da due mesi circola in parlamento, ringrazierei e mi ritirerei a vita privata nelle mie ville. Avrei di nuovo attestati di simpatia e di finti rimpianti. Gli incancreniti nemici rimetterebbero in naftalina spade, pugnali e spilli. Finirebbero in quell’istante i ritorni di fiamma dei pubblici ministeri rossotogati. Si placherebbero le piazzate del popolo viola. Si smorzerebbe il menar di penna e di tastiera dei Travagli e travaglini». Remigio, che ha equilibrata stima di sé, si comporterebbe così. L’autostima di Silvio, invece, è straripante, sconfina nell’autoidolatria. Perciò non farà un passo indietro. Le molte sue vicissitudini sono visibili sul suo volto, anche se un lifting sapiente ne attenua la caricatura. Per un quarto di secolo è stato il più importante degli italiani, tanto amato quanto odiato. I suoi nemici storici sono finiti nel retrobottega della cronaca e delle istituzioni. Lui sopravvive a tutti e non gli pesano i suoi 85 compleanni. Bene gli si addice il paradosso di Teofilo Gautier: «Nessuno è stato più giovane di me». Forse è proprio Silvio il paradosso d’Italia.

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