D ieci giorni fa leggemmo titoli di importanti quotidiani che, con dovuta cautela, annunciavano «segnali di tregua tra magistratura e politica». Se fosse vero si tratterebbe di due fazioni facinorose che si stanno combattendo per un dominio e che cercano un armistizio. Questo sarebbe troppo e troppo grave essendo l’una e l’altra le supreme espressioni di uno Stato di diritto. Forse, pensammo, è soltanto una percezione sbagliata. Ma due boati di altrettante procure hanno riproposto la contrapposizione fra le due parti: il ricorso per cassazione contro l’assoluzione di Salvini e il terremoto giudiziario all’ombra dei grattacieli di Milano. Se fossimo certi che tutti i magistrati non fanno politica nulla avremmo da commentare su questi provvedimenti ritenendoli soltanto due clamorosi fatti di cronaca. Invece, da quando sono scesi dal loro piedistallo, molti di loro si espongono alla critica e alla valutazione dell’opinione pubblica. Hanno militanza dichiarata e appartenenze correntizie, le loro sentenze spesso sono ideologiche o cosiddette creative. Anziché rappresentare un ancoraggio alle derive politiche offrono, con i loro provvedimenti, ulteriori occasioni di scontro. I loro atti nei confronti dei politici hanno più l’aspetto di un controllo etico che di un’azione giudiziaria. Come fossero i tutori di un’immaginaria virtù di Stato.

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