« Ho una collezione di borsette. Sono una donna libera, porto i tacchi e vesto bene. Non riuscirete a farmi diventare come voi». A prescindere da com’è andata a Montecitorio ieri dopo queste parole, a Daniela Santanché dev’essere riconosciuta una coerenza da Marchesa del Grillo: «Io so’ io, e voi omissis». Una sorella d’Italia un po’ distratta su come vive il resto della famiglia, diciamo.

Ora, per una ministra in carica che più degli altri ha il compito di risultare attrattiva (governa il turismo), i nodi da chiarire diventano due. Il primo è sempre la contestazione di falso in bilancio e truffa all’Inps della sua società Visibilia: oltre 126mila euro per la cassa integrazione Covid per tredici dipendenti che invece avrebbero continuato a lavorare, gratis dal punto di vista di Santanché. Ma questo lo chiarirà nel palazzo di Giustizia, e le inchieste non necessariamente culminano in condanne.

Quel che invece resta da spiegare, e ieri la ministra non l’ha fatto, è il legame tra il reato contestato da una parte, la borsetta e i tacchi a spillo dall’altra. Se le considera attenuanti, la consultazione del Codice di procedura penale non la soccorre. Certo, borsette e tacchi a spillo nemmeno aggravano: la mancanza di buongusto, anche quando ci si rivolge alle famiglie assai spesso in difficoltà economiche, non ha rilevanza penale. Ma rilevanza politica, invece sì.

© Riproduzione riservata