In prima linea contro il coronavirus nel cuore della zona rossa emiliana, è uno dei registi della lotta al flagello. Paolo Doneddu, 55 anni, di Lanusei, dall'86 a Modena, dove ha messo su famiglia, è coordinatore infermieristico del Servizio di emergenza territoriale del 118, sotto l'azienda Usl della città emiliana. Salvo eventi molto impegnativi - come la recente rivolta delle carceri o il terremoto - non si occupa dell'attività assistenziale. Ma è lui che pianifica e gestisce tutte le risorse che servono per l'emergenza nel territorio. Racconta di un'Emilia che ha risposto compatto all'emergenza, dove impegno, senso del dovere, collaborazione e professionalità sono gli ingredienti segreti di un sistema virtuoso.

Il modello

«Il servizio ha funzionato», racconta Doneddu, «non siamo mai andati sotto certi standard. Come sistema di emergenza avevamo una procedura iniziale molto rigida sui sospetti. La risposta è stata puntuale perché sempre presente sul territorio, anche grazie al volontariato e a tutte le forze in campo, con tutte le coperture standard e le risorse in più che si sono rese necessarie. Il personale, richiamato dalle ferie, ha avuto un ruolo cruciale, ha risposto con spirito di servizio e professionalità. Sono stati potenziati gli ospedali con i reparti specializzati, così siamo riusciti ad alleggerire le altre strutture e i territori vicini».

In trincea

Seppure non dai mezzi del 118, Paolo Doneddu vive quotidianamente l'emergenza tramite i suoi colleghi che, tra mille difficoltà professionali e umane, cercano di vincere la battaglia contro un nemico ancora sconosciuto che mette paura. Anche se sono abituati a lavorare in emergenza, le difficoltà di avere a che fare con qualcosa di sconosciuto, la paura dei contagi, la disperazione di pazienti e familiari, il cambiamento repentino delle condizioni mediche si fa sentire, anche psicologicamente. «Questa esperienza lascerà il segno sul nostro futuro, sul nostro modo di lavorare. Penso che agli operatori dovrebbe arrivare qualcosa in più di un grazie». Essendo a contatto con chi lavorta in trincea, Doneddu usa mille accorgimenti anche quando torna a casa da sua moglie e i suoi due figli piccoli. Deve usare tutte le cautele del caso: fra tutti il cambio degli indumenti prima di entrare dentro casa e il distacco fisico con la sua famiglia, per quanto sia possibile. Tanti piccoli gesti che entreranno a far parte della nostra routine anche in futuro. Ed è al futuro che guarda Doneddu. «Questa vicenda ci insegna che dobbiamo cambiare il nostro modo di muoverci, di lavorare, il nostro approccio alle persone, di utilizzo dei dispositivi di protezione, di ripensare le strutture e gli strumenti anche grazie al supporto tecnologico. Quello di cui vado orgoglioso è che come i servizi di emergenza del territorio hanno risposto in maniera coordinata e poi abbiamo un sistema sanitario che in Italia funziona e garantisce assistenza a tutti, e questo mi rende tranquillo oltre che orgoglioso».

Il problema

Qualche pecca, però, Paolo Doneddu la trova. «Potevamo organizzarci - osserva - quando il problema era solo in Cina, mettere insieme tutte le menti e prevenire concretamente: forse siamo arrivati tardi. Oggi c'è ancora troppa gente in giro. In Sardegna ci si aspettava una risposta un po' diversa. L'insularità poteva, questa volta, essere d'aiuto. Ne usciremo con le ossa rotte ma più forti di prima, dovremmo, per il futuro, fare tesoro di questa esperienza».

Paola Cama

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