Prima votazione per gli italiani al tempo del coronavirus.

Qualcuno, come il virologo Massimo Galli, ha definito "folle" convocare gli elettori alle urne a pandemia non ancora terminata, ma ormai è deciso: domenica 20 settembre e lunedì 21 gli italiani sono chiamati a votare per il referendum sul taglio dei parlamentari, per le amministrative in diversi Comuni e per scegliere i governatori in 7 regioni, oltre che per due suppletive (una in Sardegna) per seggi vacanti al Senato.

Un mix potenzialmente esplosivo dal punto di vista politico, perché, al di là dei risultati "secchi", il combinato disposto tra i verdetti potrebbe creare non poche ripercussioni sul governo e sull'attuale assetto di maggioranza.

Lasciando da parte il voto regionale, è sul referendum costituzionale che il Movimento 5 Stelle, il principale partito di maggioranza - per numero di parlamentari - si gioca la faccia e il futuro, soprattutto se, come indicano i sondaggi, i candidati pentastellati non dovessero arrivare a fare risultato, rispetto ai concorrenti di centrodestra e di centrosinistra, nella competizione per il rinnovo dei governatori.

IL QUESITO - "Approvate il testo della legge costituzionale concernente le modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n.240 del 12 ottobre 2019?".

Questo il quesito su cui si dovranno esprimere gli italiani. In sostanza, visto che la riforma non ha ottenuto la maggioranza qualificata dei due terzi, prevista per le modifiche alla Carta, il popolo deve scegliere se confermare o annullare la legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, approvata nell'ottobre 2019. Se vince il Sì il numero dei deputati alla Camera scenderà da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200.

Se vince il No, invece, il numero dei parlamentari rimarrà quello attuale.

Da notare che non è previsto quorum, vince l'opzione che ottiene un voto in più.

LA GENESI DELLA LEGGE - Come si è arrivati a questo punto? Riassunto delle puntate precedenti: poco prima della caduta del governo Conte I (M5S-Lega) il Senato ha dato l'ok, ma solo a maggioranza assoluta, alla legge di riforma. Nel corso del voto Pd e Liberi uguali, che allora erano all'opposizione, hanno espresso voto contrario, mentre Forza Italia non ha partecipato al voto.

Ad agosto 2019 cade il Conte I, nasce il Conte II a maggioranza M5S-Pd (più Liberi e uguali e Italia Viva di Renzi) ed ecco il contrordine: a ottobre dello stesso anno la Camera approva la legge per il taglio dei parlamentari, con l'ok di tutti i principali partiti e gruppi parlamentari (qualche eccezione nel gruppo misto). Idem all'ultimo voto, che ha segnato l'approvazione definitiva.

LE POSIZIONI - E' dunque lampante che la posizione più scomoda in merito al referendum sia quella dei due alleati giallo-rossi. Il Movimento 5 Stelle aveva detto no alla riforma Renzi, ora invece battaglia per una riforma simile, ma più limitata.

I dem, invece, il taglio dei parlamentari l'avevano già proposto, nel 2016, ma collegato a una più ampia riforma del sistema. Durante il Governo Conte I hanno detto no, ma poi - per non turbare la già turbolenta nuova maggioranza de Conte II - sono stati costretti a dire sì.

Ora la posizione ufficiale, nell'imminenza del voto è: ok, votiamo Sì, tagliamo i parlamentari, ma pretendiamo dagli alleati 5 Stelle di mettere in campo, nel breve periodo, altre riforme, a cominciare da quella elettorale. Ma non mancano le voci critiche di alcuni big dem: da Romano Prodi a Gianni Cuperlo, passando per Matteo Orfini e Rosi Bindi, che hanno già annunciato l'intenzione di votare No.

Insomma, entrambi i partititi si giocano molto in fatto di credibilità.

Al contrario, la Lega di Matteo Salvini, sia in maggioranza che all'opposizione non ha mai titubato: era per il Sì ed è per il Sì al taglio anche ora.

Idem Fratelli d'Italia, mentre Forza Italia ha deciso di lasciare libertà di voto (Silvio Berlusconi si è detto però scettico sulla reale efficacia di una legge ideata dagli "odiati" 5 Stelle).

Posizione simile agli azzurri quella di Italia Viva. E non potrebbe essere diversamente: Matteo Renzi in queste settimane non ha mai smesso di evidenziare le differenze tra la sua riforma e quella in ballo domenica, definita un "mero taglio" lineare, senza ripercussioni positive sui "veri problemi" del sistema politico.

Contrari, anzi contrarissimi alla riforma sono infine PiùEuropa di Emma Bonino e Azione dell'ex ministro Carlo Calenda.

LE RAGIONI DEL NO - Proprio gli esponenti di PiùEuropa e Azione ripetono come un mantra quelli che secondo loro sono i rischi del taglio dei parlamentari, così come concepito dalla riforma in oggetto. In primis: la riduzione della rappresentatività in alcuni territori, specie quelli meno popolosi (in Sardegna, ad esempio, si passerà dai 17 seggi attuali alla Camera a 11 e dagli 8 in Senato a 5, con una riduzione rispettivamente del 35,3% e del 37,5%). Inoltre, viene sottolineato, l'organizzazione delle due Camere è basata su mille persone e non su 600, a cominciare dalla composizione delle commissioni. Dunque i parlamentari, che saranno meno, dovranno partecipare a più riunioni, sedute ecc. In sostanza: dovranno lavorare di più. E, pizzicano molti, "se già lavorano poco ora...".

LE RAGIONI DEL SI' - Le ragioni del Sì sono varie. Il Movimento 5 Stelle, principale sponsor della riforma, sottolinea il risparmio per le casse pubbliche determinato dal taglio dei parlamentari che oscillerebbe (in realtà ognuno dà le sue cifre) tra poco meno di 50 e poco più di 80 milioni di euro l'anno. Inoltre, i pentastellati sostengono che con il taglio l'Italia si allineerà al rapporto popolazione-parlamentari degli altri Stati europei (altra questione controversa, però, visti i diversi assetti costituzionali e i diversi ruoli delle camere negli altri Paesi dell'Unione).

Inoltre, c'è l'aspetto della riduzione del numero di appartenenti alla cosiddetta Casta, altro cavallo di battaglia grillino. Non si pecca di partigianeria, però, sottolineando che molte di queste istanze pro-Sì erano state duramente criticate e smantellate pezzo su pezzo dallo stesso M5S in occasione della campagna elettorale per il referendum costituzionale proposto da Renzi due anni fa. Ma tant'è.

GLI SCENARI POST VOTO - Come detto all'inizio, il combinato disposto tra regionali, amministrative e referendum potrebbe innescare contraccolpi alla maggioranza di governo. Oppure non innescarne affatto. Dipende dai risultati.

Ecco dunque qualche scenario possibile.

1) Se la maggioranza tiene alle regionali e vince il Sì, nessun problema. Il governo Conte bis potrà proseguire nel suo mandato, uscendo rafforzato e mettendo anche un po' di silenziatore alle forze più piccole che chiedono spazio, in particolare Italia Viva.

D'altro canto, l'opposizione avrà comunque la possibilità di spendere nei comizi e nei salotti tv il risultato ottenuto al referendum, della serie: "Grazie a noi sono stati tagliati privilegi e sprechi, laddove invece il solo Pd aveva fallito". In uno scenario di campagna elettorale permanente un buon premio di consolazione.

2) Ancora: se le forze di maggioranza soccombono alle regionali, ma vince il Sì, i giallo-rossi avranno un paracadute per atterrare in maniera più leggera, attutendo il colpo della debacle.

3) Lo scenario peggiore per Pd e Movimento 5 Stelle sta, ovviamente, nella vittoria del No accompagnata dall'affermazione del centrodestra alle regionali, in particolare in Puglia e, soprattutto, nella rossissima (un tempo) Toscana. In questo caso, mentre Renzi faticherebbe a mascherare sorrisi, tutto verrebbe messo in discussione, comprese le leadership dei dem (per i beninformati Bonaccini starebbe già scaldando i motori) e del M5S (idem Di Battista). Zingaretti e Di Maio lo sanno benissimo.

Ma lo scossone sarebbe pesantissimo anche a livello nazionale. E nulla varrebbe a quel punto ricordare che "anche Salvini e Meloni hanno perso il referendum".

Stato d'emergenza o no, Covid o meno, la rassicurazione ai suoi del presidente del Consiglio Giuseppe Conte "comunque vada il Governo andrà avanti" apparirà di colpo molto, ma molto meno rassicurante.
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