I quotidiani dei giorni scorsi ci hanno riportato la notizia relativa all’annullamento, da parte della Commissione Contenziosa del Senato, della delibera del Consiglio di Presidenza che aveva deciso il taglio dei vitalizi. In particolare, sembrerebbe, come di fatto è, che all’interno dell’organismo chiamato ad esprimersi sull’esame dei ricorsi presentati dai senatori, vi siano stati tre voti favorevoli e due contrari.

Durissima ed immediata la reazione del capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, il quale non ha mancato di stigmatizzare la circostanza affermando, per un verso, che questo annullamento sarebbe stato concepito e consumato nottetempo, “di nascosto”, per altro verso, che si tratterebbe di un vero e proprio “schiaffo al Paese che soffre”, e, per altro verso ancora, che “la casta si (sarebbe tenuta) il malloppo”. Dal canto suo, Maurizio Paniz, nella sua qualità di legale dei numerosissimi parlamentari colpiti dalla misura, nel farsi portavoce delle loro lagnanze, ha costantemente sostenuto che il taglio sarebbe invece “incostituzionale” siccome “(violerebbe) il principio di non retroattività dei provvedimenti”. Che dire: nulla, o forse tutto e/o il contrario di tutto. La questione non è certamente né di scarso interesse, né di striminzito rilievo se solo ci si sofferma a considerare le pesantissime implicazioni di carattere morale ed etico, prima ancora che giuridico, che essa reca con se. Ricorderemo senz’altro tutti che nel mese di luglio dell’anno 2018, l’Ufficio di Presidenza della Camera, aveva approvato la famosa e “vexata” delibera 14/2018, rubricata “Rideterminazione della misura degli assegni vitalizi”, che avrebbe fatto scattare, a partire dal 1° gennaio 2019, data di entrata in vigore, il ricalcolo degli assegni, con il metodo contributivo, per quei deputati cessati dalla carica. Di fatto, poi, a cagione delle lentezze (forse curiosamente) verificatesi in Senato, l’attuazione del provvedimento slittava all’ottobre successivo e con esso anche la pioggia di ricorsi in opposizione. Ma cosa sono, e cosa rappresentano realmente i vitalizi? Quale è, se davvero esiste, il loro significato e la loro valenza sul piano politico? Sono legittimi sotto il profilo tecnico giuridico? E quand’anche lo fossero, in una consociazione che si ritenga moderna ed evoluta, sono comunque eticamente e moralmente accettabili sul piano sociale, oppure rappresentano null’altro che un privilegio desueto, odioso ed ingiustificato rispetto al mutamento dei tempi ed alle condizioni economiche del Paese aggravate, peraltro, dagli esiti della pandemia? Esiste, e/o esisteva, considerato che oggi si discute sulla legittimità o meno del principio di retroattività dei tagli, una correlazione diretta ed immediata tra la pressione fiscale imposta alla cittadinanza italiana e la corresponsione dei tanto vituperati “vitalizi”? La (finta) lotta ai vitalizi, peraltro aboliti fin dall’anno 2012, costituisce, come taluni mostrano di ritenere, l’espressione più evidente di forme di populismo incalzante sfocianti nell’affermazione di una sempre crescente invidia sociale accentuata dal malessere che, purtroppo, al giorno d’oggi accomuna tanto la classe operaia, quanto quella di commercianti, artigiani, insegnanti e/o liberi professionisti ed autonomi in genere? Troppi sono gli interrogativi che probabilmente popolano la mia mente. E difficilissimo risulta azzardare delle risposte, le quali, pur tuttavia, sono oltremodo necessarie quanto meno nell’ottica di suscitare un dibattito che possa rivelarsi utile a comprendere non solo quale sia il sentire comune, ma soprattutto ad interpretare le profonde trasformazioni che serpeggiano, con sempre maggiore intensità, nelle nostre comunità e che impongono l’abbandono del vecchio e desueto “linguaggio del potere” il quale, all’evidenza, ed a sua volta, appare di sempre più difficile accettazione ed interpretazione nell’ambito di un tessuto sociale che non ne riconosce oramai i codici di accesso per essere divenuti, gli stessi, inaccessibili alla stessa generalità dei consociati. Intanto, perché, al giorno d’oggi, appare assai difficile continuare a giustificare la sopravvivenza di un istituto, quale appunto il “vitalizio”, (inteso come rendita che i parlamentari italiani ed i consiglieri regionali percepiscono dopo una legislatura), oramai comunque abolito fin dal 2012, siccome lo stesso, più che apparire agli occhi della massa quale segnale ed espressione della libertà del parlamentare di turno finalizzato a tenerlo al riparo dalle ingerenze dei poteri forti, e quindi dai pericoli dei fenomeni corruttivi, esso è sempre più andato delineandosi come inaccettabile privilegio espressivo del più generale e cieco sentimento antiparlamentaristico tanto di destra quanto di sinistra sempre più restio, all’evidenza, ad accettare insostenibili soluzioni di compromesso. Quindi, perché, checchè se ne voglia dire, in questa Terza Repubblica appare sempre più complesso negare (probabilmente perchè in questi termini è stato forse artatamente presentato) il rapporto di strettissima correlazione esistente tra le imposte che la cittadinanza italiana è tenuta pesantemente a versare e la corresponsione di quei tanto odiati “vitalizi” ai politici di bandiera, giacchè, nel sentire comune, e non solo, l’eccessiva gravosità dei medesimi sembrerebbe vergognosamente trovare la sua (in) giusta compensazione proprio con il gettito fiscale richiesto niente meno che agli italiani, sempre meno disposti a sovvenzionare una Politica incapace di fornire risposte soddisfacenti e sempre più inclini, per converso, a manifestare la loro insofferenza nei confronti di dinamiche che siano altre ed ulteriori rispetto a quelle immediatamente rivolte al perseguimento dell’interesse comune. Inoltre, perché, benchè quello sulla legittimità o meno della retroattività del taglio dei “vitalizi”, a ben considerare, sembrerebbe rappresentare né più nè meno che il manifesto propagandistico di un Movimento oramai in caduta libera in termini di consenso ed incapace di offrire al Paese un concreto progetto politico finalizzato alla ripresa economica, tuttavia, proprio quel pericolosissimo manifesto, per la sua immediata e diretta incidenza sulle credenze e sulla credulità popolare, è riuscito ad attecchire con forza nel substrato sociale del malessere divenendo il fattore principe del malcontento generale. Infine, perché di conseguenza, sebbene, come ritenuto da Paniz, la delibera sia stata annullata siccome ingiustificata in considerazione della giurisprudenza della Corte Costituzionale sul punto, nonché in considerazione del diritto dell’Unione Europea per la mancata osservanza dei cinque requisiti di riferimento (irretroattività, effetto temporaneo, ragionevolezza, destinazione, ed efficacia erga omnes), tuttavia non sempre ciò che è giuridicamente corretto appare moralmente ed eticamente accettabile allorquando, sempre secondo il sentire comune generalizzato, “il massimo del diritto” corrisponda, al “massimo dell’ingiustizia”, per usare una espressione di Cicerone divenuta celebre. Oggi, purtroppo, la Politica è avvertita come l’espressione del male assoluto sfociante nella sempre più impellente necessità del Popolo Sovrano di riappropriarsi di un Potere spettantegli per diritto naturale: ossia, il Potere di esercitare un controllo diretto ed immediato sull’azione politica finalizzato ad orientarne le scelte e ad evitarne gli abusi. Adattando una celebre espressione di Antonio De Curtis, in arte Totò, e lasciandone l’interpretazione al sentire di ciascuno di noi, verrebbe da esclamare: “la casta è casta e va, si, rispettata, ma voi perdeste il senso e la misura”.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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