La risposta degli esperti doveva arrivare in tempi brevi, invece il lavoro sugli ultimi resti del pensionato cagliaritano Emanuele Costa è in corso da oltre un anno e ancora non si vede il traguardo. Scrivere l'ultima parola su una vicenda giudiziaria che trent'anni fa aveva fatto scalpore è più complicato di quanto si potesse pensare.

L'inchiesta, originata dal ritrovamento del cadavere del 79enne nel suo appartamento di via Donizetti il 3 febbraio 1990, era sfociata nella condanna a 12 anni del nipote Pino, radiotecnico 40enne, per omicidio preterintenzionale, un delitto cioè provocato dalle sue azioni ma non voluto. Nella ricostruzione investigativa, l'uomo era entrato nell'appartamento per mettere a segno una rapina ma l'aggressione aveva provocato nello zio un infarto e la conseguente morte. Nel 1992, al termine di un processo nel quale non erano mancati colpi di scena con la comparsa di testimoni oculari e anche di un reo confesso rivelatosi bugiardo, la sentenza era diventata definitiva: caso chiuso.

L'imputato ha sempre negato tutto. Poi, alla sua scomparsa nel 2004, è stato il figlio Carlo, che vive in Toscana, a riprendere in mano il fascicolo e a compiere un passo importante: due anni fa ha presentato alla Corte d'assise cagliaritana un'istanza nella quale chiedeva di accedere ai reperti istologici conservati all'istituto di Medicina legale del Policlinico universitario a Monserrato. Voleva sottoporli a un'analisi servendosi della tecnologia attuale, più avanzata rispetto a quella degli anni Novanta, nella speranza di dimostrare che la morte dell'ex dipendente civile della Marina militare fosse stata provocata sì da un infarto ma slegato dall'aggressione. Una disgrazia dunque non dovuta alla botta presa durante il tentativo di rapina. Se si dimostrasse l'assenza di un rapporto di causalità tra il colpo e il decesso, si potrebbe arrivare alla revisione del processo e alla riabilitazione del padre.

Il Palazzo di giustizia di Cagliari (L'Unione Sarda - Manunza)
Il Palazzo di giustizia di Cagliari (L'Unione Sarda - Manunza)
Il Palazzo di giustizia di Cagliari (L'Unione Sarda - Manunza)

Poche settimane dopo la domanda, arrivata sul tavolo del pubblico ministero Alessandro Pili, era stato fissato un incidente di esecuzione in Corte d'assise attraverso il quale il presidente (Giovanni Massidda) doveva decidere se riaprire il caso. Convocate in aula tutte le persone interessate (chi aveva presentato la richiesta e il pubblico ministero, al quale doveva essere affidato il compito di recuperare quei reperti), l'appuntamento era stato rinviato al novembre 2018 per accertare l'eventuale presenza, nel vecchio istituto di Medicina legale di via Porcell a Cagliari dove in passato confluivano i reperti da analizzare nell'ambito delle inchieste penali, di reperti riguardanti quel delitto. Che si pensava fossero stati buttati durante il trasloco al Policlinico universitario di Monserrato. In effetti nell'edificio del capoluogo era stata trovata un'ampolla custodita in un locale ormai inutilizzato. Così era stata disposta una serie di analisi per capire se si trattasse di materiale utile allo scopo, pur non utilizzato all'epoca: il dubbio è che fosse stato ritenuto inutile. Meglio tuttavia lasciare nulla di intentato. I risultati potevano rivelarsi decisivi in un senso (confermare lo stretto legame tra aggressione e infarto) o nell'altro (nessun nesso di causalità). L'obiettivo era ricostruire la "tempistica" degli avvenimenti: quanto tempo era passato dall'ingresso di Costa nella casa alla morte del 79enne? Per avere una risposta si era ipotizzato servisse un mese o poco più. E' trascorso oltre un anno.

La rapina, secondo la sentenza, si era svolta in questi termini. Aperta la porta dell'appartamento, il pensionato forse neanche aveva avuto il tempo di vedere in faccia chi aveva bussato. Tolta la catena di sicurezza, era stato colpito da un pugno sferrato da qualcuno che, subito dopo, era entrato, aveva rovistato nelle stanze e prelevato i gioielli per poi fuggire. Il proprietario era rimasto riverso su un fianco davanti all'ingresso e con un ematoma sull'occhio destro. Il colpo non era stato fatale ma, secondo l'autopsia, il cuore dell'anziano aveva ceduto per lo spavento. Era il 31 gennaio 1990. Il cadavere era stato trovato riverso sul pavimento tre giorni dopo, quando una figlia (preoccupata perché il padre, che vive da solo, non risponde al telefono) era andata a controllare assieme al marito e al cognato cosa potesse essere accaduto. La casa era sottosopra, mancavano i gioielli ma nel cassetto della cucina c'erano ancora otto milioni di lire, arretrati della pensione ritirati qualche giorno prima. L'edificio si era riempito di forze dell'ordine.

Nella notte la donna andando via dall'abitazione era stata avvicinata dal cugino Giuseppe, figlio del fratello del padre. Non lo vedeva da decenni, addirittura era convinta che il papà neanche conoscesse il nipote, ma questi le aveva detto di abitare in via Cimarosa (lì vicino), che lui e lo zio compravano il pane nello stesso negozio e che dunque si vedevano spesso. Era lì perché «mentre rientravo a casa avevo visto tanta gente e la polizia», aveva spiegato lui stesso in seguito ai giudici, «mi ero fermato e mi avevano raccontato quanto era accaduto».

Poco dopo era spuntata una testimone, una studentessa che abitava nell'appartamento sotto quello della vittima. La notte del delitto (individuata tra il 31 gennaio e il primo febbraio), così aveva detto agli inquirenti, aveva sentito alcuni tonfi e il rumore di mobili che venivano spostati, così era andata a controllare. Aveva socchiuso la porta d'ingresso e visto una persona scendere, ma pensando si trattasse dell'inquilino dell'ultimo piano era tornata a dormire. Quando aveva visto Pino Costa però lo aveva riconosciuto: era l'uomo che andava via quella notte.

Così il radiotecnico era finito sotto accusa e, pur proclamandosi innocente - «lo sono e continuerò a urlarlo sempre, un'altra persona ha compiuto l'omicidio», scriveva ancora nell'agosto del 2000 dal carcere di Orvieto - era stato condannato a 12 anni dalla Cassazione nell'ottobre 1992: per i giudici il movente erano i problemi finanziari e i pessimi rapporti con lo zio, da lui stesso ammessi in aula. Inutile anche la versione della madre: .

Poi sei mesi dopo il tossicodipendente Massimo Tolu, ospite di una comunità, aveva confessato a un sacerdote di essere il vero responsabile del delitto. Aveva sostenuto di essere stato imbeccato da un amico, Omero Etzi, la cui compagna aveva lavorato come colf dal pensionato. Dopo il colpo era fuggito in Inghilterra, non sapeva che la vittima fosse morta. Voleva rimediare e lavarsi la coscienza. Tutti avevano parlato di errore giudiziario e Pino Costa era stato scarcerato il 12 marzo 1993, ma poco dopo si era scoperto che i familiari di Costa avevano pagato dieci milioni di lire per quella ammissione e che Tolu il giorno del delitto era in Gran Bretagna. Così Costa era tornato in cella. Nessuna revisione, Etzi e Tolu erano stati condannati per calunnia ed autocalunnia. L'imputato, che aveva continuato a protestarsi innocente, è morto nel 2004.

Un anno e mezzo fa la seconda richiesta di revisione. L'analisi dei reperti è fondamentale: si pensava bastassero poche settimane, sono trascorsi 15 mesi.
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