Primo passo: la pianificazione strategica. Secondo: l'approvvigionamento dei posti letto. Terzo: la gestione dei flussi dei pazienti. In altre parole: costruire un quadro di interventi per l'emergenza Covid, per oggi, per il prossimo futuro e in previsione anche di una terza ondata dell'epidemia. Poi, recuperare spazi per i malati; sapere sempre in tempo reale chi entra e chi esce dagli ospedali, cosa è occupato e cosa si libera, a partire dal pronto soccorso fino alla terapia intensiva e, un domani, alla fase post ricovero negli hotel.

Il lavoro del "bed manager" è molto complesso e in Sardegna finora nessuno lo aveva mai fatto. Due settimane fa, sul modello di altre realtà in Italia e all'estero, il commissario straordinario dell'Azienda per la tutela della salute Massimo Temussi ha cambiato decisamente rotta nel modo di gestire la crisi, istituito questa nuova figura e dato l'incarico all'ingegner Alberto Bini, 44 anni, nuorese, già dipendente dell'Ats a Sassari.

Un ruolo impegnativo.

«Sì, stiamo mettendo in atto un'innovazione molto articolata, agendo in tutta l'Isola e su tutte le aziende».

Ci spieghi.

«Dobbiamo creare posti letto per pazienti Covid. Ma non avendo il tempo materiale di realizzare spazi ex novo, dobbiamo convertire. E convertire è più complicato che costruire, perché quello che esiste è pieno. Per ogni intervento creiamo un team trasversale, con competenze mediche, infermieristiche, di sicurezza sul lavoro».

Da dove si comincia?

«Da un'analisi di fattibilità. Bisogna capire dove mettere quello che c'è e come muoverlo, dal comodino al paziente, dai letti medicali alle sale operatorie, ogni elemento ha un grado diverso di complessità. Non si tratta semplicemente di chiamare una ditta di traslochi o elettricisti che colleghino gli impianti. Serve gente qualificata, e tutto dev'essere fatto velocemente».

Il piano regionale prevede 86 terapie intensive e circa 600 posti di area medica: il raddoppio di quello che c'è.

«Il piano non è scritto nella pietra, ci stiamo muovendo al suo interno, vedendo volta per volta quali sono i fabbisogni essenziali. Ad esempio, prima del Binaghi, abbiamo pensato che una soluzione migliore e più rapida sarebbe stata quella di trasformare subito il Marino».

Incontrate ostacoli, medici poco propensi al cambiamento?

«Lo dico da sardo, collaborare non è nella nostra cultura. La sfida ora è quella di riuscire a fare rete, dobbiamo sciogliere parecchie resistenze. Dobbiamo incidere in trenta giorni in una situazione ferma da oltre quarant'anni. Un problema della sanità pubblica dell'intero Paese».

Parliamo di flussi.

«Ogni giorno dobbiamo sapere quante persone ci sono ricoverate e dove. Abbiamo attivato una serie di canali automatici, ovviamente l'aggiornamento dipende dalle singole strutture. Ma oltre ai dati caricati, io e il mio collega sanitario, Derrick McGillard, facciamo quotidianamente, due volte al giorno, un giro di telefonate a tutti i presìdi ospedalieri per fare il punto».

Anche con gli ospedali non Covid?

«Sì, perché a tutti capita di avere improvvisamente pazienti positivi».

Per le file delle ambulanze fuori dai pronto soccorso cosa fate?

«Ecco, il posto letto in realtà è un punto d'arrivo, la cosa più critica da governare è il punto di partenza, cioè i pronto soccorso, le code e le attese».

Attese infinite.

«Allora, il pronto soccorso è misto, nel senso che ci arrivano persone con diversi problemi. Oggi la procedura standard è quella di fare il tampone a tutti, perché non possiamo correre il rischio di far entrare il virus nei reparti. Insomma, l'unico sistema di gestire i ricoveri in sicurezza è trattare tutti come casi sospetti fino a prova contraria. E gli esiti dei tamponi, per quanto quelli dei pronto soccorso abbiano sempre la priorità, non arrivano prima di quaranta minuti un'ora, il tempo minimo che abbiamo rilevato. Capite bene che se ci sono dieci ambulanze è impossibile fare le cose in fretta».

Poi cosa succede?

«Quando c'è la conferma di un positivo, il pronto soccorso ci segnala la necessità di un ricovero e la gravità del caso, quindi ci attiviamo per trovare un posto. Dal monitor sanitario regionale e dalle telefonate dirette sappiamo dove c'è un letto libero, analizziamo la componente organizzativa e territoriale (nel senso che si cerca di tenere la persona il più vicino possibile a casa) e appena c'è l'incastro mettiamo in contatto la struttura di partenza e quella di ricovero, che devono confrontarsi e organizzare il trasporto del paziente. Più in là centralizzeremo anche i trasporti, attualmente sono i singoli ospedali a occuparsene».

La situazione è sempre critica.

«Sta migliorando giorno per giorno. Le strutture stanno iniziando a capire meglio come procedere. Teniamo conto che in Sardegna nella prima fase i numeri erano molto bassi e non c'è stato modo di impratichirsi. Per noi è questa la prima vera ondata».

Da un lato si aprono reparti Covid, dall'altro si tolgono posti e operatori alle altre patologie.

«Le risorse sono limitate, ci sono sicuramente disagi per la popolazione, ma i servizi d'urgenza sono sempre garantiti, cosa che altre regioni non stanno riuscendo a fare. Non dimentichiamoci che neppure prima il sistema sanitario brillava per puntualità, le liste d'attesa erano sempre lunghe. Noi lavoriamo con soluzioni modulari, aprire un numero crescente di posti se e quando servono. Tutti quelli previsti dal piano saranno necessari fra tre settimane? Non lo sappiamo. Non abbiamo la sfera di cristallo e se anche l'avessimo sarebbe pericoloso usarla. Facciamo investimenti che non siano uno spreco di denaro e, fra qualche mese, se saremo tranquilli, i reparti potranno tornare alla loro funzione normale, migliorati e più moderni. Contemporaneamente, se ci dovessimo trovare un'altra volta in emergenza, la riconversione potrà avvenire in tempo zero. L'indicazione da seguire, a livello strategico, è ragionare per sei mesi. In primavera, con pochi casi e speriamo il vaccino, le strutture potranno essere riadattate, ma dobbiamo essere pronti, mentalmente e strutturalmente a una terza ondata nell'arco di un anno».

Cristina Cossu

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