Gli Ermellini, con la sentenza n. 6626/2020, hanno deciso che il Capitano Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3, non doveva essere arrestata, non solo per aver ella agito nell’adempimento di un dovere compiuto mediante la conduzione di un gruppo di naufraghi in un porto sicuro, ma anche per non potersi in alcun modo definire come “nave da guerra”, pur essendo “nave militare”, la motovedetta della Guardia di Finanza, per non essere stata la stessa condotta, nella circostanza, da un Ufficiale di Marina regolarmente iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali.

Le norme vigenti parlano chiaro e la Cassazione si è limitata ad assicurarne l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione. Eppure Salvini, nel fare orecchie da mercante, si è ostinato ancora curiosamente, quanto sorprendentemente, a gridare allo scandalo, rilevando come “per qualche giudice, una signorina tedesca che ha rischiato di uccidere cinque militari italiani speronando la loro motovedetta non merit (i) la galera, ma il ministro che (avrebbe) bloccato sbarchi e traffico di esseri umani si”. Viene spontaneo domandarsi il perché di tanto livore. Quale è davvero la portata devastante di questa decisione in fondo così poco attenzionata? Qual è il suo significato sotto il profilo umanitario e sotto il profilo politico interno ed internazionale? Perché costituisce un brutto colpo per Matteo Due e per la sua azione politica incentrata sulla chiusura dei porti?

Premesso che sotto il profilo giuridico nessun appunto può essere mosso sulla decisione in discorso, è appena il caso di osservare che la stessa, al di là dei suoi contenuti, piaccia o non piaccia, assume senza ombra di dubbio un cocente rilievo politico. Intanto, perché, oltre a stigmatizzare indirettamente e di riflesso, la (probabile) illegittimità del comportamento del Capitano Padano nella sua azione di contrasto dei flussi migratori, essa costituisce, e non è certo necessario scomodare Lapalisse per accorgersene, l’inizio della fine dell’efficacia dei proclami di piazza in argomento tanto cari al leader leghista che, avendo volontariamente rinunciato allo scranno di Ministro dell’Interno, non può più dirigere “da padrone”, e soprattutto “immune” da conseguenze, la sua azione politica facendosi lecito di ignorare, come a suo tempo fece, pure le segnalazioni dell’ONU sul decreto “Sicurezza Bis” per essere lo stesso, stato approvato, sebbene ritenuto fuorviante e non in linea col rispetto dei diritti umani previsto dai Trattati Internazionali.

Quindi, perché siccome tutti i nodi vengono sempre al pettine prima o poi, e siccome l’ignoranza della legge, specie da parte di chi le norme avrebbe dovuto, e dovrebbe conoscerle in ragione della carica ricoperta, non discolpa né tanto meno giustifica, è chiaro che il respingimento dei richiedenti asilo, attuato teatralmente mediante la “chiusura” solo via “tweet” dei porti, e vietato da numerose norme del diritto internazionale, prevalenti “senza se e senza ma” sul diritto interno, non può in alcun modo essere liquidato alla stregua di mero “atto politico”, diversamente da quanto avrebbe voluto, e vorrebbe ancor oggi, lasciar credere un certo leader nordista, ma ha un preciso rilievo, nonchè conseguenze, sul piano giuridico che non dovrebbero essere ignorate. Poi, perché, la sentenza sul caso Rackete, stranamente quanto significativamente, è sopraggiunta proprio nel medesimo giorno in cui la Procura di Catania depositava nell’ufficio GIP la richiesta di fissazione di udienza per il caso Gregoretti.

Infine, perché, con buona pace dell’ex Ministro dell’Interno, la Suprema Corte, con la propria decisione, non solo ha chiarito una volta per tutte che il diritto alla vita e il principio di non respingimento tutelati dai Trattati Internazionali, prevalgono su ogni norma nazionale, specie su quelle dei decreti sicurezza, ma anche che l’Italia, continua a conservare sempre e comunque la sua vocazione internazionale ed internazionalistica garantita dagli articoli 10 e 11 della Costituzione, ed espressa, fra l’altro, dal primato del diritto dell’Unione sul diritto italiano che neppure Salvini ha, alla fine, voluto e potuto scalfire, perché per farlo, avrebbe dovuto non certo limitarsi a gridarlo in piazza, ma, piuttosto, avrebbe dovuto portare avanti (e fortunatamente non lo ha fatto) la procedura di Italexit.

Tuttavia, al di là di queste prime riflessioni, la decisione in discorso, a mio modesto avviso, ispira, comunque, ben altre considerazioni, e ci induce a riflettere sull’innaturale rapporto, perché tale sembra essere divenuto, tra la politica e la gestione del potere che, ad un certo punto, inevitabilmente, incontra, e talvolta si scontra, con la sfera giudiziaria. Rapporto che secondo il mio personale punto di vista è divenuto, o forse lo è sempre stato, gravemente patologico per la cronica impossibilità di portare a conciliazione due fondamentali proposizioni contrastanti, ossia quella relativa all’immunità politica e quella relativa alla responsabilità giuridica specie in un momento, quale quello attuale, in cui il prevalere del localismo politico ha a sua volta trovato la propria degenerazione in forme di “populismo del leader” e di “sovranismo” esasperato che, a loro volta, hanno contribuito a sdoganare come “interesse pubblico” (la tutela dei confini dai flussi migratori), sulla base di una nozione deforme di “atto politico”, ciò che “interesse pubblico” non è né può essere mai allorquando contrasti, come nella specie, con norme superiori frutto di precedenti e precise scelte politiche che neppure la forte legittimazione popolare, con buona pace del Matteo padano, ed espressa dall’inciso “me lo chiedono gli italiani”, può in alcun modo contrastare.

Giuseppina di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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