Con una lettera inviata al Premier il 23 dicembre scorso, il Ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, in quota 5 Stelle, atteso il voto definitivo sulla legge di bilancio, ha annunciato le sue dimissioni siccome non sarebbero stati previsti fondi congrui per il settore di propria competenza. In buona sostanza, in manovra non sarebbero arrivati tutti e tre i miliardi che aveva richiesto per scuola e università.

E va bene, oramai siamo abituati, abbiamo capito che l'esigenza spasmodica di visibilità, di tanto in tanto, si impossessa in maniera prepotente di qualche esponente di governo che deve darvi sfogo nei modi e nei tempi meno opportuni. E forse, tutto sommato, è pure naturale domandarsi il perché di una scelta così radicale, come pure può sembrare naturale domandarsi cosa si nasconda davvero dietro la decisione dell'oramai ex ministro grillino e se questa mossa sia, e/o sarà, veramente in grado di destabilizzare l'attuale governo "Arancione" a trazione Conte bis, oppure rappresenti solamente il segnale evidente dell'inarrestabile declino dei pentastellati e del loro capo politico "Gigino".

Tutti interrogativi legittimi ma, in qualche modo, addirittura scontati e davvero superflui. Soprattutto laddove si consideri che la motivazione alla base della decisione, nei termini in cui ufficialmente è stata resa pubblica dal diretto interessato, più di qualche perplessità la ponga laddove semplicemente si rifletta sulle difficoltà di approvare una legge di bilancio quanto meno "di galleggiamento", che non fosse eccessivamente "punitiva" verso i cittadini e nel contempo fosse rispettosa degli strettissimi parametri europei.

Premesso che a mio personale parere questa boutade in fondo improvvisa, inopportunamente quanto vanamente piazzata in un arco temporale particolare quale quello relativo alle festività natalizie, rappresenta unicamente un tentativo triste e poco edificante di calamitare sulla propria persona, in maniera un po' teatrale, l'attenzione generale degli italiani ed i riflettori di un palcoscenico politico che invece esprime, meritatamente quanto unicamente, il protagonismo di Giuseppe Conte, credo che la decisione di Fioramonti, lungi dal porsi come elemento di destabilizzazione dell'attuale esecutivo, sia solo il segnale profondo non solo della crisi di quel che resta del Movimento, ma anche la spia del complesso processo di trasformazione che nei prossimi mesi dovrà caratterizzare gli stessi pentastellati, e non solo, in vista di una sopravvivenza divenuta oramai critica e garantita solamente da un'alleanza di governo altrettanto articolata sebbene ben gestita dal Presidente del Consiglio.

Ciò significa, tradotto in termini spiccioli, che se Fioramonti intendeva far rumore, la cosa, con sua buona pace, non gli è certamente riuscita. Intanto, perché per fare rumore occorre essere di "peso", un "peso" che ad oggi Fioramonti evidentemente non ha acquisito essendo politicamente troppo giovane per riuscire a contraddistinguersi in attività o interventi di particolare rilievo.

Quindi, perché quella stessa decisione non solo non ha sortito alcun effetto pratico sulla tenuta del governo, ma è anzi piuttosto servita a far emergere la straordinaria prontezza di riflessi e l'altrettanto straordinario aplomb del Premier, il quale, senza neppure scomporsi troppo, ha pensato bene di sorprendere tutti sdoppiando l'unitario Ministero dell'Istruzione dell'Università e della ricerca in due parti distinte nominando alla Pubblica Istruzione la sottosegretaria Lucia Azzolina e all'Università e Ricerca scientifica Gaetano Manfredi, nell'evidente chiaro intento di sottolineare che in maggioranza, i membri, sono tutti utili ma nessuno indispensabile. Inoltre, perché siffatte dimissioni, ben lungi dal condurre alla scissione dei 5 Stelle (comunque imminente per altre ragioni) finalizzata alla creazione di un gruppo parlamentare di fedelissimi di Conte in aperto contrasto con le motivazioni dichiarate, non avendo senso contestare la maggioranza di governo, quindi anche il Premier, per la mancanza di coraggio manifestata in manovra, per poi creare un apposito gruppo a sostegno di quello stesso governo e del suo Premier accusati di codardia, hanno per il momento condotto alla sola dipartita dell'ex Ministro, passato proprio ieri al gruppo misto. Ancora, perché se è vero, come è vero, che il Partito Democratico, privo di una propria autentica identità, si trova a dover attraversare il momento più buio della sua storia per essere venuti meno tutti i punti di riferimento di carattere internazionale, tra cui Clinton, Blair, Obama, a cui il centro sinistra italiano aveva costantemente attinto per trarre e giustificare la propria legittimazione dall'esterno, altrettanto deve dirsi per il M5S il quale, perdute irrimediabilmente le sue connotazioni iniziali anti casta, e messi da parte gli obiettivi che lo avevano reso un "unicum" nell'immaginario degli italiani, non riesce a contrastare il proprio processo di declino organizzativo interno e rappresentativo esterno.

E allora? Quale strada seguire per non soccombere? Sarà banale, ma il rinnovamento e la conseguente fusione tra i due partiti in un partito unico di stampo marcatamente liberal-progressista e moderato, guidato da Conte, rivelazione politica di questo anno 2019, resta la via maestra. Di conseguenza, l'unica possibilità di ripresa, tanto per il PD quanto per il M5S (il quale ultimo dovrà necessariamente liberarsi dalla soffocante morsa del "sistema Casaleggio") quale futuro partito unico, è quella di decidersi a rimettere l'Italia e gli italiani al primo posto, sia nelle politiche economiche, da difendere strenuamente in UE, sia nelle politiche migratorie, senza per ciò stesso cadere nell'equivoco sovranista di stampo salviniano e di ispirazione trumpiana. Sfida accettata?

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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