Le previsioni di crescita dell'Italia per quest'anno (+0,1%), diramate la settimana scorsa dalla Commissione Ue, confermano sostanzialmente le aspettative di stagnazione condivise dallo stesso governo nel Documento di Economia e Finanza (Def). Di fatto, l'Italia è il Paese che cresce di meno tra tutti i Paesi dell'Ocse. Nel confronto europeo, ristagna più della Germania (+0,5%), l'altro grande Paese industriale di recente entrato in stagnazione a causa degli effetti negativi della guerra commerciale tra Usa e Cina.

Per quanto minuscola, tuttavia, la crescita italiana è stata interpretata dai mercati in senso positivo, perché le aspettative della vigilia davano quasi per scontata una possibile decrescita. L'inversione positiva, dopo i due ultimi trimestri negativi del 2018, era già stata anticipata dall'Istat col +0,1% di crescita del Pil del primo trimestre di quest'anno.

Il problema è che il nostro Paese non cresce più o cresce marginalmente nel confronto con gli altri partner europei. Esso si trova in fondo alla classifica tra i 28 Stati Ue per crescita, occupazione e investimenti, di cui si prevede quest'anno un crollo dello 0,3%. Quanto all'occupazione, il forte ridimensionamento del tasso di crescita dell'eurozona (dall'1,9% del 2018 all'1,2% di quest'anno) ha, infatti, un impatto negativo anche sulle previsioni del tasso di disoccupazione, che in Italia, secondo la Commissione, salirà dal 10,6% del 2018 al 10,9% di quest'anno e all'11% nel 2020.

In generale, il nostro Paese sconta un andamento ciclico sempre inferiore alla media europea, sia quando il ciclo è favorevole (l'Italia cresce di meno della media europea), sia quando esso è sfavorevole (l'Italia è penalizzata di più della media europea).

Perché ciò accade? Evidentemente esistono fattori specifici che agiscono negativamente sulla performance italiana, staccandola da quella media europea. Tra questi rientrano in generale la scarsa performance delle piccole e medie imprese, anche se tra di esse ci sono casi di elevata produttività, e l'assenteismo, la sovraoccupazione, l'inefficienza burocratica e la corruzione nella Pubblica Amministrazione, che resta il settore meno produttivo.

Esistono tuttavia anche imprese di punta che sono in controtendenza rispetto a questo andamento declinante. Si tratta di imprese competitive sia a livello nazionale che internazionale, che includono numerose aziende quotate in borsa (blu chip) e i cosiddetti "champions" o "multinazionali tascabili", spesso non quotate, che rappresentano l'eccellenza della produzione italiana nel mondo e hanno fatturati trainati dalle esportazioni. Sono loro che mandano in attivo la bilancia commerciale italiana e che nel 2018 hanno fatto salire le esportazioni sino a 563 miliardi.

Nel complesso, tuttavia, i fattori negativi, comprese le decisioni sbagliate della politica, che usa la spesa pubblica più per massimizzare il consenso elettorale che non per la crescita economica, superano quelli positivi.

Perciò il Pil non cresce. I giornalisti lo chiamano il paradosso del made in Italy, che associa il ristagno a una montagna di utili. Le aziende quotate alla borsa di Milano quest'anno prevedono infatti di distribuire 19 miliardi di dividendi sul 2018. Inoltre, le trimestrali diramate la settimana scorsa confermano l'andamento positivo anche per quest'anno.

Con riferimento a queste imprese, la produttività e la competitività internazionale è molto elevata, ma non altrettanto si può dire per il resto del sistema economico, che in prevalenza è composto da piccole imprese poco competitive e che i provvedimenti del governo non aiutano a crescere. Le agevolazioni fiscali per le aziende sotto i 65mila euro di fatturato invece di incentivare la crescita creano di fatto un incentivo a rimanere piccole, per non uscire dalla fascia fiscalmente privilegiata.

Oltre alla piccola impresa, infine, la scarsa produttività che affossa la crescita si annida nel settore pubblico, che resta la vera palla al piede dell'economia italiana.

Beniamino Moro

(Docente di Economia politica, Università di Cagliari)
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