I muretti a secco in Sardegna sono da ieri Patrimonio dell'Umanità. Testimonianza della lunga storia della nostra Isola, discendono dall'Editto delle chiudende, atto del 1823 che autorizzava a "chiudere", recintare, terreni considerati fino ad allora di proprietà collettiva per essere coltivati da privati.

La costruzione di questi muretti, chiamati a secco perché eretti pietra su pietra senza leganti - malta o cemento - erano frutto di grande perizia, sia per la scelta dei massi che per l'abilità con cui dovevano essere posati. Uno sull'altro dovevano combaciare tra loro in modo quasi perfetto, sia in altezza che in lunghezza. Più si raggiungeva questa perfezione, maggiore era la tenuta del recinto e dunque la protezione rispetto a sconfinamenti di vario genere.

Purtroppo nella cultura agropastorale sarda c'è stato anche un uso improprio di queste opere architettoniche secolari: non solo muri divisori tra le proprietà di contadini e pastori, ma anche riparo per chi doveva vendicarsi di qualche torto subìto.

Così da dietro quei muretti sono esplosi pallini e pallettoni in direzione di presunti (ma spesso anche veri) ladri di bestiame, verso invasori degli ovili altrui per rubare i prodotti a stento ottenuti da instancabili pastori o semplicemente per rispondere a una provocazione o a un'offesa verbale.

Sarà stata la solitudine che imperava su quei monti, a chilometri dal paese, che costringeva uomini e bambini, servi pastore, a un lungo isolamento dal resto del mondo, al freddo e al gelo d'inverno e sotto il sole cocente d'estate, che il terreno diventava più che fertile per covare odio e faide. Quella catena di violenze che sfociava spesso in delitti impuniti proprio grazie ai muretti a secco.

La vittima designata non poteva sapere né vedere chi si nascondeva dietro quel bellissimo steccato, dritto e perfetto altro che Muraglia cinese, e viaggiava sul proprio cavallo o a piedi guardandosi intorno e forse anche le spalle, finché non veniva investita da una rosa di pallettoni la cui eco poteva arrivare sì e no agli ovili vicini, ma senza possibilità di soccorso alcuno.

Stramazzata al suolo, la persona ferita poteva perfino subire l'onta di trovarsi faccia a faccia con l'assassino che - immaginiamo - le sghignazzasse davanti prima di infierire con il colpo di grazia. Non dovevano restare testimoni. Solo il cavallo, che, Pascoli docet, restava muto davanti a qualsiasi implorazione.

In quei luoghi isolati era un gioco da ragazzi dileguarsi e rimanere impuniti a vita.

Molti torbidi delitti in Sardegna sono rimasti avvolti nel mistero, in assenza di testimonianze dirette o indirette alla faccia di buoni e ottimi investigatori che con i pochi mezzi di allora potevano tutt'al più sbattere contro un altro muro: quello del silenzio. E dato che sugli indizi non è mai stato condannato nessuno, i famigliari della vittima, che in genere sapevano o sospettavano chi fosse l'autore, non potevano che aspettare, pazientemente, il passo falso del nemico e scaricargli addosso da un altro o dallo stesso muretto a secco la propria vendetta.

Si innescava così la pericolosa spirale degli omicidi a tradimento. E da questa pratica discende la definizione tutta sarda, che ha preso fortunatamente il posto dei pallettoni, "ha agito dal muretto a secco", per dire "mi hai sparato alle spalle" o "hai ucciso a tradimento".

Questo se un amico, un collega, un dipendente, un parente o chicchessia tradisce la nostra fiducia o compie un'azione che non ci saremmo aspettati.

Da ieri, quei muretti che tanto dolore hanno causato, che tante ingiustizie hanno permesso, che tanta viltà hanno celato, sono patrimonio dell'Umanità e possono finalmente suscitare in noi sardi un guizzo di orgoglio e non solo vergogna.

(Unioneonline/ap)
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