C i salveranno le vecchie zie? Se lo domandò retoricamente nel 1953 Leo Longanesi, che con questo titolo pubblicò uno dei suoi libri di più amara satira. Inventore del giornalismo moderno, fu un conservatore rivoluzionario, ossimoro che ne descrive il carattere e il pensiero. «Sono un conservatore in un paese in cui non c'è niente da conservare», disse di sé con disillusione. Si era reso conto che i capisaldi della vecchia Europa e della cultura italica stavano franando sotto i colpi di un modernismo che ne svelleva le origini; e si aggrappò al passato declinante, che identificò nelle vecchie zie: «Fusti di quercia dalle radici ben solide, custodi dell'ordine classico, fedeli gendarmi dello stato», osservanti dell'avarizia non per grettezza, ma «per segno di decoro, atto di fede, principio morale, norma pedagogica». Le vecchie zie erano la metafora dell'ordine borghese al tramonto; erano simulacri impagliati accantonati dai nipoti irridenti. Perciò non poterono salvare quell'Italia. Come non salverebbero quella attuale dal disordine economico, sociale, politico e d'invasione. Si limiterebbero, parafrasando Longanesi, a poche parole di comprensione per i comandanti di turno: «Non capiscono, ma non capiscono con grande autorità e competenza». Erano anche spiritose le vecchie zie.

TACITUS
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