C he cosa ci insegnano le elezioni americane? Che la democrazia è un processo lungo, difficile, prezioso. Vince Biden, ma non è finita fino a quando non è finita. Perdono i sondaggisti (un fallimento storico) e il giornalismo a una dimensione. Previsioni sballate e un racconto dove il candidato democratico avrebbe vinto dandosi una spolverata alla giacca. Così non è andata e non poteva andare.

Vince Biden, ma non è finita fino quando non è finita. Trump si è trovato di fronte a due fatti nuovi: il coronavirus e il voto postale di massa. Il virus ha creato le condizioni per rafforzare la candidatura e la campagna di Joe Biden, una figura poco carismatica; il Postal Service ha messo le ali al voto dem, perché se è vero che “l'onda blu” non c'è stata, è altrettanto vero che “l'onda rossa” è stata arginata.

Biden attende. Sa che è solo una questione di tempo. E Trump? Attende anche lui che cali il sipario, conosce il suo destino. Ma in queste sceneggiature americane c'è sempre la speranza di un colpo di scena, di un ribaltone della scrittura, del lampo che brucia la trama per svelarne un'altra. Possibile? Non è aria, ma gli eventi s'intrecciano in questo cammino lento verso il potere, la conquista dell'America. Così doveva essere un venerdì nero per Donald Trump, ma il treno delle elezioni si è fermato in Georgia. Con poco più di mille voti di scarto scatta il riconteggio. Vinta, persa, rivinta, ripersa, che storia quella della Georgia. Biden, Trump, Biden, poi chissà.

A ltalena, pendolo, corsa di cavalli al fotofinish. Poco prima delle cinque del mattino, ancora nel buio di Washington, il macchinista aveva comunicato al quartier generale di Donald: «Presidente, abbiamo finito il carbone». Stop, binario morto. E per un pugno di voti della Georgia Joe Biden sarebbe andato alla Casa Bianca. Poi, colpo di scena, il margine è talmente esile che scatta il riconteggio.

Sorpresa? Fino a un certo punto, il ritornello di “Georgia on my mind” echeggiava nella testa di Trump da qualche settimana, lui ci ha fatto campagna e così anche Biden, perché lo Stato era diventato una preda possibile per i dem, tanti fattori hanno scombinato il voto tradizionale: cambiamento della popolazione, soprattutto nei sobborghi, voto delle donne e dei senior. L'ultima volta di un democratico fu quella di Bill Clinton nel 1992, da allora rosso fisso. Domani sarà blu? Forse, ma è l'ora del riconteggio, scheda per scheda, tutto da rifare. Le speranze di Trump turbinano nella confusione, nel MAGA (“Make America Great Again”) dei numeri, delle previsioni e delle assegnazioni frettolose di Stati che sembrano esseri mutanti, prima blu e poi rossi. La favola bella della presidenza che va al bianco Biden con il voto sudista, due sorprese, la Georgia e l'Arizona, per ora è rinviata. La sceneggiatura era fatta, lo Stato di Martin Luther King e John Lewis, la terra di John McCain, i fantasmi che hanno aleggiato sulla presidenza Trump, la beffa e la sconfitta del Tycoon. Niente da fare, fiction in pausa.

L'Arizona sempre in bilico, assegnato a Biden da Fox News (ira di Trump) all'inizio di uno spoglio da autoscontro, con le manifestazioni ai seggi, i pacchi di schede che arrivano a pioggia e cambiano le distanze tra i due candidati, avanti e indietro, Biden e Trump, Trump e Biden. «Alla fine l'Arizona sarà nostro» assicurano dalla campagna repubblicana. Il pazzo vai e vieni di Trump, tra recuperi (im)possibili, ricorsi, stop e riconteggi. Vince Biden, ma non è finita fino a quando non è finita. La Pennsylvania blu, contestata e pronta a flippare, perché Trump ha giocato tutte le sue carte sul pozzo di petrolio, il fracking come via diretta per la Casa Bianca. Un giudice ha detto che bisogna separare le schede buone da quelle sospette. Santa pazienza, quanto ci vorrà ancora?

Biden è in vantaggio ovunque, vede la presidenza, ma ancora non la tocca perché Trump è un drago che si dibatte, dà colpi di coda, sputa fiamme e ruggisce. E dalla sua campagna ancora dicono: «Non è finita, le proiezioni non sono i voti». Quella di Biden è stata una corsa durissima, altro che cavalcata delle Valchirie dipinta dai sondaggisti (ha ragione quel navigato di Frank Luntz, devono cambiare mestiere), Biden a tre giorni dal voto parla come un presidente, dice che vuole unire la nazione, ma non è ancora presidente, Nancy Pelosi lo definisce “presidente eletto”, ma sul suo scettro s'annuvola un tornado trumpiano di cause, valigette di avvocati.

L'acqua gli sta sfuggendo dalle mani, Trump sta perdendo la presidenza. Gli resta la nazione rossa, una realtà più grande di quella di quattro anni fa. Ha preso voti, conquistato seggi alla Camera e al Senato, dato una regolata alle ambizioni di Pelosi e Chuck Schumer, ripiazzato Mitch McConnell e Lindsay Graham al Senato. Non è più alla Casa Bianca, gli resta la leadership indiscussa tra gli elettori repubblicani.

C'è tutto, i voti per posta, i voti in persona, i voti regolari, i voti contestati, i voti in orario, i voti in ritardo. C'è anche il finale. Manca solo la sigla e il bagliore del “The End”. È proprio così, non è finita finché non è finita.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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