N el tentativo di interpretare le vicende sociali e politiche, noi tutti tendiamo a fare un po' sempre gli stessi errori. Anzitutto, sovrastimiamo costantemente il peso degli eventi a noi più vicini: quello che succede oggi, nella realtà in cui siamo immersi, ci appare straordinariamente importante. Lo è davvero? Solo il tempo potrà dirlo, molto spesso fenomeni che ci sembrano nuovi non sono che la coda di processi innescati da tempo. In seconda battuta, siamo tutti affascinati dal racconto dei “grandi uomini”, delle persone al centro delle cronache e pertanto di solito li riteniamo più influenti di quanto non siano.

L'elezione del presidente degli Stati Uniti è la più rilevante, fra tutte le votazioni nei Paesi democratici. Gli americani scelgono “il leader del mondo libero”. L'inquilino della Casa Bianca è al centro delle relazioni internazionali e, ormai, anche della scena mediatica globale: un tiro a canestro di Obama o un balletto di Trump si imprimono nella nostra memoria come scene di un film hollywoodiano. Quest'ultima tornata elettorale, poi, è stata segnata da passioni profonde, da divisioni difficili da rammendare quando il vincitore (che ancora non c'è) pure dichiarerà, come fanno tutti gli inquilini della Casa Bianca, di voler essere il “presidente di tutti”.

L'odio nei confronti di Trump, il fastidio per la volgarità dei suoi comportamenti, la percezione diffusa che carattere e storia personale lo rendano indegno di una carica tanto importante, hanno acceso il campo avversario.

A l contrario i repubblicani hanno reagito alle proteste violente di “black lives matter”, hanno risposto al richiamo legge e ordine del Presidente, sono stati galvanizzati dai tre giudici da lui nominati alla Corte Suprema. Ciascuna delle due tribù aveva ottime ragioni per votare.

Ma ci sono questioni con le quali il nuovo Presidente dovrà fare i conti, e che difficilmente cambieranno drasticamente a seconda della tessera del suo partito. La principale è la pandemia: lasciare aperto e demandare le chiusure semmai agli Stati era la soluzione trumpiana, un lockdown nazionale quella di Biden. In un caso e nell'altro, la pandemia non scomparirà nemmeno se glielo ordina il Presidente americano. I democratici hanno criticato Trump per non aver seguito la via “chiusista” indicata dagli Stati europei. La seconda ondata sta producendo in Europa però di nuovo forti incrementi del contagio, mettendo in prospettiva scelte che ieri erano apparse necessarie.

Anche gli Stati Uniti hanno messo in atto forti politiche di sostegno ai settori colpiti, negli scorsi mesi. Ciò ha portato a un incremento straordinario del deficit, accelerando sulla strada che Trump aveva imboccato sin da principio: il debito nazionale americano è oggi il 100% del PIL, il valore più elevato dalla seconda guerra mondiale. Nessuno dei candidati ha proposto tagli di spesa: Trump insiste su tasse basse per generare più crescita economica ma non ha nessuna intenzione di sforbiciare il governo federale, Biden è affezionato alle promesse di redistribuzione tipiche del suo partito. Ci sono fattori evidenti, a cominciare dal fatto che il dollaro resta la vera valuta internazionale, per cui gli Stati Uniti sono un Paese diverso da tutti gli altri. Ma questo aumento dell'indebitamento deve, a un certo punto, rientrare nell'agenda politica.

La pandemia segnerà anche, secondo alcuni, il futuro della globalizzazione. Se essa si prolunga e se le misure di contrasto vanno a limitare anche scambi e interazioni commerciali, è probabile che alcune catene di fornitura debbano essere ripensate. Per ora, almeno in questo campo, i governi e le organizzazioni internazionali hanno agito con saggezza: negli ultimi mesi, le iniziative straordinarie prese sui dazi hanno coinciso con una loro riduzione, non con un aumento. La retorica protezionista trumpiana è solo il riflesso di tendenze antiche negli Stati Uniti. Basterebbe un Democratico alla Casa Bianca a calmarle? È tutto da vedere.

Come è tutto da vedere quale politica monetaria ci darà in sorte questa elezione. Trump era stato eletto denunciando le politiche monetarie espansive che avevano drogato il mercato azionario, a vantaggio dell'amministrazione Obama. Poi di quella stessa droga ha fatto volentieri uso. Certo è che siamo in un mondo nuovo: le Banche centrali continuano ad acquistare titoli di Stato, sostenendo i bilanci pubblici, ma sono diventate anche forti acquirenti di obbligazioni private. Christine Lagarde ci ha informato che la BCE controlla circa il 20% del mercato dei “green bond”. C'è dunque una precisa scelta di investimento. Il problema è che più questi attori aumentano la propria influenza sull'economia, e meno potranno restare indipendenti dalla politica. Cambierà davvero qualcosa, a seconda del vincitore? In un caso e nell'altro, la tentazione di aumentare la presa sulla Federal Reserve sarà forte. Le sfide fra candidati ci appassionano, soprattutto quando uno dei due, come Trump, si può solo amare o odiare. Il Presidente americano ha molto potere ma le sue scelte sono anch'esse un prodotto delle circostanze politiche in cui è immerso, prima ancora di rivelare la sua determinazione e il suo pensiero.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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