P er due mesi le nostre giornate sono state scandite dai numeri lugubri della Protezione Civile. Oggi invece non manca giorno che qualche amministratore locale non minacci di chiudere tutto. Le persone si starebbero approfittando della libertà individuale loro restituita. I governi, locali e nazionale, tengono a precisare che è una libertà condizionata: tant'è che il 3 giugno il nostro Paese riaprirà il traffico aereo verso l'Europa ma minaccia di non fare uscire dal perimetro regionale gli italiani delle regioni a rischio.

In molti nei mesi scorsi hanno profetizzato che saremmo usciti dalla pandemia diversi e migliori. Di sicuro ne usciamo con le idee meno chiare su che cosa sia l'epidemia e su quali debbano essere i principi a cui si ispira il rapporto fra Stato e persone. L'epidemia è un fenomeno biologico. Alcune delle migliori menti al mondo sono impegnate a studiarla. Non è la prima volta che, nella storia umana, un patogeno sconosciuto bussa alla nostra porta. In poche settimane, abbiamo appreso che questo coronavirus ha fatto il suo salto di specie dal pipistrello all'uomo, abbiamo imparato a riconoscerlo attraverso un test.

a S in da principio, è stato chiaro che la malattia è assai lieve, per la maggioranza degli infetti, ma potenzialmente mortale per un piccola percentuale di essi. Siccome non era e non è ben chiaro quanto piccola sia questa percentuale, e siccome comunque l'arrivo di tanti pazienti, tutti assieme, nei nostri ospedali basterebbe per mandarli in crisi, abbiamo messo in campo degli interventi non farmaceutici per appiattire la curva: cioè, per diluire nel tempo i contagi e renderli più gestibili da parte del servizio sanitario nazionale. Intanto, gli scienziati hanno continuato a studiare il virus, i medici hanno fatto tentativi diversi per trattare la malattia, la pubblica amministrazione ha ampliato la disponibilità di letti in terapia intensiva. Altre cose non sono state fatte: come disporre sistemi per tracciare malati e quindi isolare nuovi focolai. Allo stato delle nostre conoscenze, continuano a mancare parecchie tessere dal puzzle. Non sappiamo se l'epidemia ha fatto il suo corso, in che misura è proprio a questo che si deve il minore numero dei contagi e in che misura invece dipende dai cambiamenti nelle abitudini delle persone, non abbiamo idea di come evolverà la situazione nelle prossime settimane.

È dunque necessario essere prudenti. Lo è di meno trattare i cittadini come fossero dei bambini un po' scemi. Eppure è quello che politici e media fanno tutti i giorni.

In primo luogo, le politiche di lockdown dovevano servire a comprare tempo. Comprare tempo perché lo Stato attrezzasse ospedali e terapie intensive. Comprare tempo per sviluppare protocolli e prassi per imparare a convivere con il virus. È stato fatto? In parte sì, in parte no. Gli italiani ammirano i loro medici ma conoscono bene i loro amministratori. È comprensibile che i cittadini più fortunati, non contagiati, mostrino più leggerezza di quanto non dovrebbero. Compito della politica dovrebbe essere informare e spiegare. Invece, in questa fase due, presidenti di Regione e governo hanno scelto la forma della rampogna. Se lo meritano, gli italiani? Compito fondamentale delle istituzioni pubbliche è creare certezza e fornire dati affidabili. Invece lo stesso discorso pubblico appare sfasato dalla realtà: discutiamo di Regioni confondendo chi eroga la sanità con le dimensioni del contagio; sappiamo che i numeri sono sottostimati ma non sappiamo di quanto; non si è mai fatta neppure una indagine statistica per comprendere l'effettiva estensione del contagio. La crisi economica è durissima. Alle persone sono stati chiesti sacrifici importanti, travestiti con uno slogan apparentemente innocuo come “state a casa”. Purtroppo i sacrifici non sono finiti: i nostri livelli di benessere arretreranno drammaticamente. Per riprendere a produrre e a vivere ci servono istituzioni e leader che creino le condizioni opportune. La chiarezza nel discorso pubblico può aiutare, l'impressione di considerare gli italiani pedine da muovere, dentro o fuori casa, no.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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