L a scena del Senato durante la discussione della sfiducia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede trova la perfetta definizione in un'espressione francese: “politique spectacle” o “politique politicienne”, la tendenza della politica a occuparsi degli affari (im)propri o di questioni del tutto irrilevanti per il bene comune, della propaganda. Niente di nuovo, il fenomeno nasce dall'antichità, l'ascesa dei mezzi di comunicazione di massa lo fa decollare, i social media lo proiettano a razzo, siamo in piena era di qualunquismo techno-pop. Tutti instagrammati nella decrescita (in)felice del coronavirus.

L'antefatto è una storia di sottopotere e nessuna grandezza politica: il ministro Bonafede nel 2018 propose al procuratore Nino Di Matteo la guida del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) o la direzione degli Affari Penali (meglio conosciuta come la “poltrona” di Falcone). La scelta, la mattina dopo scomparve: il posto del Dap venne affidato a Francesco Basentini e a Di Matteo rimase “solo” la posizione che fu di Falcone. Problema: l'organigramma di Via Arenula in questi vent'anni è profondamente cambiato, il posto che fu di Falcone oggi non ha alcun peso.

V i fu una discussione tra i due, il disaccordo, tutto rimase nel silenzio. Due anni dopo, la crisi del coronavirus innesca le rivolte nelle carceri, le evasioni dei detenuti provocano uno sconquasso nel Dap, il ministro deve tagliare la testa a qualcuno per non perdere la sua, rotola quella di Basentini. La crisi carceraria finisce in una puntata heavy-metal della trasmissione di Massimo Giletti, viene evocata la nebulosa dell'antefatto del 2018 e così Di Matteo alza il telefono e racconta in diretta come andarono le cose due anni prima, con una coda elettrica sulle presunte pressioni dei boss per non far approdare lui, l'uomo forte del processo “Trattativa”, al Dap.

Altrove questo imbarazzante pezzo di teatro dei pupi sarebbe sfociato in un confronto all'americana tra la versione di Bonafede e quella del Di Matteo, qui non è successo niente e si capisce perché, più si agita il tappeto, più polvere si solleva e meno soggetti possono dichiararsi candidi, a cominciare dal Consiglio superiore della magistratura, corroso dalle lotte intestine fra le correnti. L'istituzione è travolta da uno storico contrappasso, uno sputtanamento generale in cui gli intercettatori diventano intercettati, improvvisamente gli “elevati” in toga si umanizzano con le loro pulsioni e desideri di prestigio sociale. Ora sanno quanto sia barbaro tutto questo.

La storia si consuma in un contesto incandescente. Nel momento in cui il coronavirus sta mordendo la vita di decine di migliaia di imprese e famiglie, il Parlamento si produce in numero non-sense con una sfiducia a Bonafede che non è mai esistita sul serio, ma serviva a far passare il trenino del riequilibrio del governo. Matteo Renzi ha “salvato” l'esecutivo, ma in realtà non ha mai pensato di farlo cadere (oggi), il leader di Italia Viva sfrutta le debolezze della coalizione, le sue contraddizioni, preme su Conte perché sa di aver davanti un premier malleabile, che si nutre d'emergenza, dunque Renzi continua a interpretare il ruolo di colui che ha plasmato il Golem del governo e ogni tanto minaccia di disfarlo con la stessa magia con cui lo ha creato. Si chiama strategia di logoramento politico.

Il caso Bonafede non sarebbe mai dovuto arrivare in aula, le mozioni di sfiducia sono pistole scariche, servono a fare altri giochi, non a rimuovere il problema politico: in una dimensione normale, il premier avrebbe dovuto chiamare il Guardasigilli a Palazzo Chigi e invitarlo a dimettersi e chiarire il fatto con Di Matteo in tribunale, mentre il magistrato Nino Di Matteo a sua volta avrebbe dovuto trarre le conseguenze del suo comportamento sopra le righe, lasciare il Csm e sostanziare le sue parole. Rappresentano istituzioni, non se stessi. Restano entrambi al loro posto, con un gioco d'ombre alle spalle e il paradosso del ministro della Giustizia Bonafede che nel suo intervento al Senato denuncia «le allusioni e le illazioni» sul suo caso. Sul taccuino del cronista resta una nota: il Guardasigilli avvisa i naviganti sui pericoli della cultura del sospetto di cui il suo partito, il Movimento Cinque Stelle, s'è nutrito. Così, alla fine del nostro giro, la “politique politicienne” torna indietro al Terrore di Robespierre che alla fine ghigliottina anche lui, Robespierre. È la Rivoluzione che si mangia i suoi figli.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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