Q uesto mestiere è una fabbrica sempre aperta, ne abbiamo viste tante e pensiamo di averle viste tutte, poi il tempo ci coglie di sorpresa, ci spiazza, ci riporta sulla terra della cronaca, c'è una storia nuova da raccontare: il coronavirus.

La storia sta voltando pagina. L'opera è in fieri, siamo a Londra, castello di Windsor. «Mio padre». Sta parlando la Regina. Scorre la sabbia nella clessidra. «Mio padre», scandisce al trotto, cavalcando le sue 94 primavere, la Regina Elisabetta II. «Mio padre», e tu realizzi con un brivido di stupore che sei di fronte a un passaggio della storia che questa straordinaria donna ha sigillato in due parole dense di gravità e significato, per lei e per tutti noi: «Mio padre».

La Regina Elisabetta con un discorso breve e intenso come pochissimi sanno fare oggi, ci ha ricordato che la leadership è rara e preziosa quando la prova è quella della vita. La foto di “mio padre” è là, alla sua destra, avvolta in un bianco nero che emana il clangore di ferro e fuoco del romanzo del Novecento, Giorgio VI è in divisa, era il Re di un impero che si avviava al declino, stava galoppando sulla prateria della storia il Secolo Americano.

S ettantacinque anni prima, nello stesso giorno, l'8 maggio, “mio padre”, pronunciò il discorso della Vittoria, l'annuncio della fine della Seconda guerra mondiale in Europa. Padri. Madri. Figli.

È un lampo in una notte di cronaca, una leadership gentile e ferma, potente e dolce. Mentre in Italia abbiamo un premier che evoca la parola “amore” per le banche, nell'isola d'Inghilterra (e noi sappiamo cosa significa essere isolani) la Regina con un colpo da Wimbledon sfodera un match point della storia inglese: «Le nostre strade non sono vuote; sono piene dell'amore e della cura che abbiamo l'uno per l'altro. E quando guardo il nostro Paese oggi e vedo cosa siamo disposti a fare per proteggerci e sostenerci a vicenda, dico con orgoglio che siamo ancora una nazione che quei coraggiosi soldati, marinai e aviatori riconoscerebbero e ammirerebbero». L'amore, la cura, il prossimo, la protezione, il sostegno e l'orgoglio, le figure dei caduti, dei sommersi e dei salvati, il ritorna a casa in un Regno chiamato libertà. Ovazione. Elisabetta.

Che cosa abbiamo visto e sentito? “Mio padre”, che sboccia come un fiore sulla labbra di una donna magnifica. L'era del coronavirus volterà pagina quando ognuno di noi riconoscerà suo padre e sua madre, l'immensa eredità che ci hanno lasciato. Il macigno dei sacrifici fatti per la libertà, la ricostruzione di un paese in macerie che durante la guerra fu dalla parte sbagliata. La Sardegna 75 anni fa era poverissima, fu ricostruita, bonificata, rimessa al suo posto in Occidente. Fu il lavoro infinito di “mio padre”. E la fatica piena d'amore totale di “mia madre”. Perché accanto agli uomini c'erano tante regine che hanno allevato le famiglie, esercitato il comando del pane e dell'acqua (ecco il bagliore lontano della nostra mitologia mediterranea, appare la dea Tanit) in un'isola che per nostra fortuna ha ancora nel matriarcato le sue fondamenta. Questa forza ci ha salvato ieri.

Sull'oggi abbiamo più di qualche dubbio. Perché si fa largo in Italia l'idea che a una società propulsiva e creatrice si sostituisca l'assistenza, il sussidio, la dipendenza di tutti dallo Stato padrone che decide perfino della natura del nostro “affetto stabile”. Ci sono molti modi per diventare schiavi in quest'era di nuova povertà, questa idea che si sta materializzando davanti a noi, per la Sardegna dell'Autonomia, di Emilio Lussu, di Pratobello dove il pascolo non divenne mai terra per sparare con i cannoni, è sbagliata. Non è un progetto per il domani, per noi e soprattutto per i nostri figli. La crisi del coronavirus per la Sardegna è una straordinaria occasione creatrice, aprite le case e i laboratori, le fabbriche e le attività del turismo, riformate tasse e burocrazia, fate investimenti sulla tecnologia perché abbiamo un passato digitale che è il nostro futuro, accogliete chi vuole vivere con noi e far crescere la nostra terra, il mondo sta cambiando e noi possiamo controllare il virus meglio degli altri. Chi oggi governa la nostra isola volti lo sguardo indietro, ricordi di dovere tutto a “mio padre” e a “mia madre”. Affermate che il destino è nostro. La storia un giorno vi darà ragione.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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