C he succede? Siamo arrivati alla falsa ripartenza e dopo due mesi di isolamento si sono materializzati i nostri timori: l'Italia ha sprecato il tempo del lockdown - che serviva a frenare il virus e organizzare la ripresa economica - il Governo non ha un chiaro piano di riapertura (si andrà in giro ancora con l'autocertificazione) e si procede nel tentativo di regolare le azioni dei cittadini con norme improvvisate.

A l punto che perfino l'amore è diventato soggetto di definizione da parte di Palazzo Chigi, siamo alla regolazione della vita interiore: dal 4 maggio si potranno incontrare quelli che il premier ha definito “affetti stabili”. Siamo in pieno burlesque stradale. Immaginate la domanda del vigile al posto di blocco: «Dove va?». «Da un affetto stabile». «Può dimostrarlo?». «Ehm, non lo so, lo chieda a lei, ecco il telefono». «Pronto? Lei è l'affetto stabile? (lunga pausa)». «La signora dice che stabile è un'affermazione impegnativa, come la mettiamo?». Sembra di vivere in un romanzo di fantascienza dove impera il grottesco, sospeso tra il dramma e il comico (in)volontario. Dall'isolamento si esce con buon senso, pragmatismo, organizzazione e ordine mentale. Sono tutte cose che in Germania e in altri Paesi stanno funzionando. In Italia il livello del dibattito è rasoterra e c'è una ragione. Quale? Emerge in maniera travolgente l'assenza di una classe dirigente capace di organizzare la nostra nuova vita nell'ordine del post coronavirus. Il mondo sta cambiando come se fossimo nel pieno di una guerra (e gli effetti sono tali, pur rimanendo la struttura produttiva intatta), ci saranno vincitori e vinti e una nuova mappa del potere sarà visibile quando la polvere dello scontro si sarà posata.

L'Occidente sta cercando di reagire, di riaprire, e nel farlo si prendono inevitabilmente dei rischi. La sicurezza totale non esiste. Il virus non è sconfitto, è tra noi, non sappiamo se si indebolirà con il caldo estivo e c'è il timore della seconda ondata nel prossimo inverno. La soluzione non può essere ancora lo “state a casa” perché stando fermi sul divano in attesa che qualcosa accada si raggiunge un solo risultato: si muore di fame. Tutti siamo coinvolti, ma gli esclusi, i perdenti, rischiano di essere tanti, troppi, miliardi di persone nel mondo e milioni su milioni in Italia. Dobbiamo tornare al lavoro, creare una nuova economia, imprese forti, altro lavoro per chi oggi non ha nulla. Tutto questo si continua a fare con il capitalismo, rinnovandolo, perché la storia ha già decretato il fallimento dell'utopia comunista. Non è con la neo-sovietizzazione dell'economia che si risolveranno i problemi dell'oggi e del domani. Come ha spiegato magistralmente Mario Draghi nel suo intervento di qualche settimana fa sul Financial Times, lo Stato ora serve per dare la pronta e massiccia risposta sanitaria, ristrutturare il sistema degli ospedali (la cura), dei test e del tracciamento (la prevenzione) per evitare di trovarsi di nuovo impreparati di fronte al coronavirus, assorbire nei bilanci pubblici lo shock del debito privato, fornire liquidità pronta all'uso alle imprese e alle famiglie.

A questo ventaglio di strumenti va aggiunta la sfida dell'educazione dei nostri figli in uno scenario di distanziamento sociale, la reinvenzione dello stare insieme, la conoscenza della prima patria, l'Isola, il nostro baricentro in un mondo in preda allo spaesamento, il salvataggio delle arti e dei mestieri, l'esperienza incastonata nel nostro dna. Perdere socialità, significa smarrire cultura e identità. Pensate alla civiltà nuragica, alla sua architettura, ai bronzetti, alle navicelle, ai giganti di Mont'e Prama, alla musica fatta di ancestrali trame di accordi (da noi anche le pietre suonano), alla meraviglia della tessitura, al profumo dei paesi quando le strade sono cosparse di petali di rosa e le porte ornate di rami d'alloro. La Sardegna è padre e marito, mamma e sposa. Si riparte da qua, “Domo mea”.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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