C he cosa sta succedendo alla politica italiana? Annotare questa domanda sul taccuino con il Natale alle porte può sembrare un esercizio masochista, in realtà è un gioco divertente, entriamo nel campo della fiction, del racconto davanti al caminetto, un'opera buia da Charles Dickens, fantasmi. Di cosa parliamo? Dei partiti, cribbio, un format senza il quale non c'è la nostra serie tv preferita.

Per sapere, per capire, partiamo dalla rivoluzione inglese. Abbiamo visto la straordinaria vittoria di Boris Johnson nel Regno Unito con un sistema elettorale che suscita la nostra grande ammirazione, il “first-past-the-post”, la potenza dell'uninominale secco, questo vince, questo perde, “the winner takes all”, il vincitore prende tutto e governa, mentre il perdente va a fare la sua nobile opposizione. Fatta chiarezza con il voto, eliminato lo stallo parlamentare, a Westminster è arrivato il primo sì alla Brexit, Londra lascerà l'Unione europea entro il 31 gennaio e, come ha detto Angela Merkel, «abbiamo un concorrente alle porte», il Regno Unito.

Sulle rive del Tamigi abbiamo una visione differente di cosa sia un partito di governo: un piano da 100 miliardi di sterline in infrastrutture, investimenti nella scuola e nella ricerca, una politica non convenzionale che ingloba il linguaggio e alcuni temi della sinistra per mantenere il voto conquistato nelle aree della working class che un tempo votava i laburisti e ora ha scelto Johnson. Il processo politico inglese potrebbe fallire, certo.

E tuttavia si respira il clima che c'è a bordo di una nave che sta per salpare, il futuro è pericoloso ed eccitante.

Mentre è in corso la rivoluzione inglese, in Italia si discute di legge elettorale. È l'ennesima distrazione di massa, nessuno riesce a guidare il Paese: il governo giallo-verde è deceduto per incapacità e rigetto degli organi, quello giallo-rosso è una creatura acquatica che non sa nuotare, galleggia, si fa trasportare dalla corrente. In mare sono comparsi banchi di sardine che vanno in piazza contro l'opposizione (fenomeno surreale) e pretendono (letteralmente, usano questa parola: “pretendiamo”) di imporre un'agenda di confuse utopie, mentre scorrono le schermate del videogame del 2020 con Donald Trump, Xi Jinping, Vladimir Putin, Boris Johnson, Recep Tayyip Erdogan. Gli inglesi se ne vanno, Trump ha aperto la guerra del gas in Europa contro Nord Stream 2, Washington e Mosca sono in piena crisi dei missili, Erdogan domina la Libia, noi discutiamo di Mattia Santori. Siamo a posto. Così l'Italia è passata dal Beppe Grillo del 2013 che prometteva di “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, alle sardine “Mai più in scatola”, (titolo dadaista di Repubblica) del 2019. Abbiamo fatto grandi passi avanti nel settore dell'imballaggio politico.

In questo quadro tragicomico, la Lega ieri ha celebrato un congresso per dire che l'era di Umberto Bossi è finita, che comanda Matteo Salvini e il partito è nazionale. Niente di nuovo, siamo al centralismo democratico del caro vecchio compagno Lenin. Idee concrete per il futuro? Nessuno ne ha, si vivacchia, aspettando Godot.

Nel generale sottosopra, abbiamo letto un'intervista del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che ha così definito il premier Giuseppe Conte: «Un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». A un sardo che ha letto le pagine di Antonio Gramsci questo appare come uno scherzo grottesco. Arturo Parisi, uomo con la testa sulle spalle e il polso di granito, ha commentato: «Pressoché unanime tra gli elettori lo sconcerto. Pressoché unanime tra i dirigenti il silenzio». Con l'eccezione di Matteo Orfini, nel Pd è tornata l'era del cinema muto. Ci vuole un grande sforzo di fantasia per vedere Conte, il premier (avvocato del popolo) in un esecutivo sovranista ieri, oggi presidente del Consiglio di un governo europeista, come un punto di riferimento (fortissimo) della sinistra. Sì, viviamo tempi interessanti. Forse troppo. Buon Natale.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
© Riproduzione riservata