T orniamo con la mente alla fine degli anni Ottanta quando, in questa nostra citta, all'angolo tra via Capula e via Giudice Costantino, c'era una magnifica lavanderia della quale neppure il mare magnum di Google sembra avere memoria.

Il nome di quel luogo, ora, sfugge perfino al ricordo, rimasto impigliato in chissà quali rovi del passato.

Era un locale ampio, ricco di odori, di consuetudini e di oggetti fuori scala lontanissimi dalla quotidianità: l'enorme lavatrice industriale per la pulitura a secco, l'impalpabile presenza, nell'aria, della trielina, il colorato talloncino identificativo per ogni capo d'abbigliamento preso in carico e lo sbuffare vaporoso proveniente da un autorevole ferro da stiro.

Bisogna proprio ammetterlo: quella lavanderia (che forse si chiamava “Europa”) era un luogo magico, un posto in cui lo sporco veniva cancellato e sostituito dal lindore e dal pulito. Ciò che era vecchio tornava nuovo o, quantomeno, ringiovaniva: e l'errore (il caffè gocciolato sulla cravatta, l'epistassi grondata sulla camicia…) si poteva cancellare.

In quei dintorni abitava, all'epoca, un adolescente sensibile che accompagnava con piacere sua madre a consegnare i vestiti già indossati: per salvarli dagli errori. Era come un rito: in primis c'era l'atto della confessione, durante il quale si mostravano le macchie alla titolare. L'assoluzione, non certa, ma frequente, arrivava pochi giorni dopo: quando gli abiti venivano riconsegnati perfettamente stirati, piegati e avvolti in un voluminoso pacchetto rettangolare che tanto somigliava a un dono.

«Ci vorrebbero le lavanderie anche per l'anima» scrisse quell'adolescente sensibile in un tema in classe e il suo insegnante, al lato, con la penna rossa appuntò: «Ci sono già: si chiamano religione, perdono e psicoterapia…».
© Riproduzione riservata