Sono un’insidia che resiste anche una volta finita la guerra. E i bambini ne sono le vittime più frequenti. Le mine antiuomo uccidono in maniera pesante: ventimila le vittime all’anno secondo le statistiche più aggiornate, diffuse in occasione della giornata internazionale contro gli ordigni inesplosi che, istituita dalle Nazioni Unite nel 2005, si celebra il 4 aprile. La ricorrenza aiuta a cogliere la gravità dei danni provocati da questi ordigni. I civili rappresentano il 90 per cento delle vittime, quasi la metà sono bambini. Le mine vengono interrate nei campi, nascoste tra la vegetazione, oppure dentro case, scuole o pozzi, perfino sotto i giocattoli. E lì rimangono anche quando la pace dirada i conflitti e spegne le battaglie. Hanno purtroppo mille forme, mai visibili. Resistono nel tempo, come una terribile eredità dei conflitti, non importa se siano ancora aperti oppure conclusi da decenni. L’innesco scatta con il contatto diretto, come la pressione di un piede o di un’auto.

Il disastro è globale. L’Afghanistan, l’Iraq, la Cambogia, la Colombia, il Mali, la Nigeria e lo Yemen sono i Paesi dove si registra un’incidenza maggiore anche se la guerra in Ucraina allarga senz’altro l’impatto visto che, a poco più di un anno dall’inizio del conflitto, si calcola che le aree da sminare sono già oltre 300 mila chilometri. A distanza di anni dalla guerra nei Balcani, per esempio, si calcola che tra Croazia e Bosnia ci siano almeno 18 mila mine antiuomo, non meno di 150 mila sono quelle disseminate in tutti i Balcani. Morti, feriti e mutilati sono purtroppo un conteggio ancora aperto.

La Siria è un altro esempio. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nel 2019, 98 cercatori di tartufi del deserto sono stati uccisi dalle mine. Il conteggio, sebbene non ufficiale, sarebbe però ben più grave perché molti incidenti non sarebbero stati dichiarati. Secondo l’Onu le aree contaminate sono 429 e lungo il confine gli ordigni sarebbero oltre 600 mila.

I Paesi del mondo dove le mine antiuomo restano un pericolo perenne sono 60, 29 quelli dove sono presenti bombe a grappolo. Sullo sfondo oltre trenta guerre in corso.

«La pace non porta alcuna garanzia di sicurezza quando le strade e i campi vengono minati, quando ordigni inesplosi minacciano il ritorno delle popolazioni sfollate e quando i bambini trovano e giocano con oggetti lucidi che esplodono», dice il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nel suo messaggio per la recente giornata del 4 aprile.

Il commercio legale delle mine antiuomo è vietato a livello internazionale, ma la produzione - sottolineano gli esperti - continua in alcuni Paesi, come Pakistan, Singapore e Russia mentre in altri, come la Libia, gli arsenali sono stati saccheggiati. In Ucraina, invece, all’inizio del conflitto c’erano tre milioni e mezzo di mine, mai distrutte, come richiesto dalle Convenzioni internazionali, per via dei costi elevati. A oltre un anno dall’avvio del conflitto gli osservatori stimano che ordigni simili si trovino in oltre il 40 per cento del territorio rendendo questo Paese il più infestato di mine del pianeta.

Il trattato di messa al bando delle mine, raggiunto nel 1997 con l’adesione di 164 Paesi, porta nel mondo alla distruzione di oltre 55 milioni di questi ordigni. Ma non basta a fermare i danni: le vittime continuano anche dopo la convenzione del 2008 sulle munizioni a grappolo, firmata da 18 Paesi. All’aumento dei pericoli non corrisponde oltretutto un incremento negli interventi per rimuovere le mine e limitare l’impatto sulle popolazioni. Lo denuncia l’Associazione nazionale vittime civili di guerra che sostiene: «Mentre guerre e conflitti nel mondo aumentano (se ne contano 34 nel 2022, due in più rispetto all'anno precedente), va in controtendenza il sostegno alla Mine Action e quindi anche ai programmi di assistenza e reinserimento socioeconomico delle vittime. Gli stanziamenti internazionali, infatti, sono calati costantemente dal 2018». Una complicazione in più per ridimensionare le terrificanti conseguenze che le guerre lasciano anche a distanza di molto tempo dalla loro fine.​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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