Negli anni, che adesso sono 65, ha accumulato qualcosa come mezzo milione di fotografie, moltissime scattate da lui, le altre trovate ovunque gli sia capitato di imbattersi in un’immagine interessante. A colori o in bianco e nero, a Vittorio Ruggero, classe 1957, tempiese “docg”, non importa. «La foto, innanzitutto, deve colpire – sottolinea – deve raccontare una sua storia e il contesto in cui è stata realizzata». Nell’immensa collezione, rigorosamente archiviata per categorie, un’infinita galleria di personaggi, molti dei quali scomparsi (a questi dedica un post sulla pagina Facebook, una sorta di epitaffio accompagnato naturalmente dal ritratto), chiese, monumenti, panorami, eventi, feste e sagre paesane: insomma, davvero di tutto e anche di più.

Scoprì la sua passione già da bambino mentre scrutava con grande curiosità le foto dei quotidiani, delle riviste. «Amavo le figure, anche nei libri per ragazzi», ricorda. Senza dimenticare il padre, Isidoro, la “maschera” del Teatro del Carmine, che sino ai primi anni Ottanta era anche un cinema. Qui il piccolo Vittorio poteva sguazzare tra film western, all’epoca molto in voga, e altre pellicole di azione, poche in verità. Poi è arrivato il regalo più ambito: una macchina fotografica. A donargliela, quando frequentava la seconda media, era stato proprio il padre. «Non stavo nella pelle. Al suo interno c’era anche il rullino. Era una Comet con il corpo in plastica, ma per me era un oggetto molto più che straordinario». Un ragazzino felice, che non perse tempo nel fare uno scatto ai presenti e a correre in strada per immortalare gli amici e ciò che gli passava per la mente.

«Fotografava qualsiasi cosa purché si muovesse», dice il suo amico Pancrazio, sottolineando il grande amore che aveva pervaso Ruggero. «Allora di soldi in casa ce n’erano pochi e non sempre potevo sviluppare i rullini e stampare le foto. Ma non mi staccavo da quella macchina, la portavo sempre con me e la puntavo continuamente verso persone, chiese e palazzi del centro storico. Non m’importava se quegli scatti inutili non imprimessero nulla, mi divertivo. Solo dopo ho scoperto che mi stavo quasi “allenando” per gli step successivi».

Durante gli anni della Ragioneria, già quindicenne, Vittorio riceve un nuovo e graditissimo regalo dal fratello Antonio: una Asai Pentax. «Un sogno. E’ stato il vero passo avanti verso la fotografia di qualità. Qualche soldino in più riuscivo ad averlo facendo diversi lavoretti, quindi potevo portare i rullini dal fotografo, stampare le foto. Insomma, un’altra dimensione». Preso il diploma e concluso l’anno di servizio militare nell’Esercito, a Ruggero capita di collaborare per La Nuova Sardegna, il quotidiano sassarese. «Un periodo breve ma entusiasmante. Non dimenticherò mai il giorno in cui entrai nella redazione di via Porcellana e vedere come si realizzava il giornale. Naturalmente mi attardai nell’osservare la lavorazione delle foto, allora in bianco e nero. Mi sembrava di essere in un mondo fantastico».

In quel periodo utilizzava una Rolleiflex, macchina già professionale, con la quale il giovane che faceva clic a “qualsiasi cosa si muovesse”, cominciò la sua innumerevole collezione di ritratti. A Tempio e dintorni era difficile che qualcuno sfuggisse al suo obiettivo. «Ho sempre pensato, e ne sono tuttora convinto, che ognuno di noi abbia una storia da raccontare. Rivedendo le foto di degli anni Settanta e Ottanta mi tornano in mente quei momenti, il periodo storico, il lavoro svolto dall’uomo ritratto che, magari, nel frattempo è scomparso. Penso agli scalpellini, per fare un esempio. Un tempo erano tantissimi in tutti i centri della Gallura. Se li contendevano, e li pagavano profumatamente, in Costa Smeralda per realizzare muretti a secco in granito oppure opere ornamentali nelle ville più importanti». Ecco, la storia. Vittorio Ruggero, oltre al suo quasi mezzo secolo di scatti, che sono già preziosi, da anni gira la Sardegna cercando e raccogliendo foto («Ho già visitato più di 300 comuni dei 377 totali, spero di toccarli tutti»).

Prima lo faceva durante le ferie e nei giorni liberi dal lavoro di vigile urbano. Da quando è in pensione ha però intensificato le sue incursioni in ogni angolo dell’Isola. Con un tarlo che non lo molla neanche per un istante: rendere fruibile a tutti la sua collezione. «Le mie foto sono state utilizzate in 26 tesi di laurea, a dimostrazione della loro importanza. Molti, credo, non sappiano che esista». Per questo ha proposto all’amministrazione comunale l’idea di un archivio storico, una sorta di museo, da ospitare in uno dei tanti locali inutilizzati di proprietà pubblica. «Non ho chiesto niente per me. Ho spiegato che il mio sarebbe un dono alla comunità tempiese e a quella sarda. Ho trovato disponibilità da parte del sindaco Gianni Addis e di alcuni assessori, che mi hanno prospettato il vecchio mercato civico in piazza Faber. Ma il discorso si è fermato lì. Non ho indagato le ragioni, non mi interessa. Resto convinto che si tratti di una opportunità. Le foto rappresentano il nostro passato, la storia della nostra città che le nuove generazioni rischiano di perdere». Lui, invece, non si perde d’animo. Anzi, con la sua Sony continua a vagare per la Sardegna e a fare clic davanti alla vita e a una storia da raccontare.

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