Quante volte l’abbiamo pronunciata, per quasi due anni non abbiamo parlato d’altro: pandemia. Eppure tutto d’un tratto questa parola è sparita dal nostro vocabolario, per far posto a un’altra, ancora più cattiva: guerra.

Il virus che ha chiuso in casa il mondo intero all’improvviso è diventato un problema secondario, forse ha addirittura smesso di esserlo, in Europa soprattutto: giovedì 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina. E da quel momento è cresciuta la paura di un conflitto mondiale con l’utilizzo addirittura della bomba atomica.

Dal Paese invaso nel corso del 2022 sono scappate più di 10 milioni di persone, quasi la metà sono state registrate per la protezione temporanea in Europa, gli sfollati sono invece cinque milioni e 400 mila. Altri 17 milioni di uomini, donne, bambini, anziani hanno avuto bisogno di assistenza.

Numeri impressionanti. L’Italia ha dato il suo contributo accogliendo più di 145 mila persone, soprattutto donne con i loro bambini: gli uomini sono rimasti, a combattere. La gran parte dei profughi sono stati accolti al nor -, Milano, Roma, Napoli e Bologna – ma la solidarietà è scattata in tutte le regioni mentre pure dalle nostre parti si stava col fiato sospeso. La dimostrazione sta in un dato: nel 2022 la parola più cliccata su Google è stata Ucraina.

A un anno dall’inizio di un conflitto che è stato definito permaguerra, perché si pensa non finirà a breve, arriva un libro, “Ucraina: grammatica dell’inferno” (edizioni Lupetti). E giusto per far capire da quale parte sta l’autore, Filippo Poletti - giornalista professionista con executive MBA alla POLIMI Graduate School of Management che da sei anni cura su Linkedin una rubrica quotidiana dedicata ai cambiamenti del mondo delle professioni - prima di cominciare riporta un verso della canzone dei Maneskin: Come fai a dormire la notte? Come fai a chiudere entrambi gli occhi?

Cinquantuno racconti per 240 pagine, i primi quindici hanno voci femminili che descrivono l’orrore senza filtri. Quindici donne che avevano un lavoro - imprenditrice, ingegnera, farmacista, biologa, insegnante di danza, traduttrice, cassiera, commessa - e che hanno lasciato tutto, e sono fuggite.

«I profughi arrivati in Italia ci fanno comprendere il dramma dell’Ucraina», dice Poletti. «Le donne, i bambini e gli uomini ucraini sono con noi, tutti i giorni, dal supermercato ai mezzi pubblici, nelle piazze come nelle vie: fanno parte della nostra comunità e, proprio per questo, abbiamo il dovere di prendercene cura, condividendo il loro dolore e aprendo le nostre braccia».

Basta leggere per immergersi nel dramma.

«Ho 36 anni», dice Halyna, «la notizia dell’attacco all’ospedale di Mariupol del 9 marzo 2022 mi ha spinto a lasciare il mio Paese. Ho pensato che se non c’era pietà per i bambini, che sono il futuro, non ci sarebbe stata neanche per me. Ho preso l’essenziale, chiuso la porta e sono scappata in Italia».

Chi è rimasto fa i conti con un bilancio tragico: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani le vittime tra i civili sono 18.483. «Se paragoniamo queste perdite a quelle registrate in 20 anni di guerra in Afghanistan – sottolinea Poletti – scopriamo che il conflitto in Ucraina ha fatto più di un terzo di quelle conteggiate tra il 2001 e il 2021».

Confida Olena: «Non so quale sia l’obiettivo della Russia, non so se voglia eliminare l’Ucraina, il popolo ucraino o la cultura ucraina, ma so di certo, e l’ho visto e lo rivedo tutte le notti nei miei incubi, che sta uccidendo tante persone». E Oksana ribadisce: «Città che bruciano, persone che non hanno più nulla, corpi accatastati, non riesco più a guardare i telegiornali. Non riesco a vedere i miei connazionali e i luoghi del mio passato andare a fuoco. Così non ce la faccio».

Caterina è stata ospitata in un centro di accoglienza della fondazione Progetto Arca a Milano: «Chiudo gli occhi e penso alla mia famiglia, ai miei figli prima di tutto e, poi, ai miei genitori. Il 24 febbraio 2022 è stato l’inizio della fine».

Filippo Poletti con le volontarie di Progetto Arca che hanno accolto numerose profughe ucraine (foto concessa)
Filippo Poletti con le volontarie di Progetto Arca che hanno accolto numerose profughe ucraine (foto concessa)
Filippo Poletti con le volontarie di Progetto Arca che hanno accolto numerose profughe ucraine (foto concessa)

Insieme a lei c’è Aliona: «Ogni volta che “inciampo” in un telegiornale è come tornare al 24 febbraio 2022, quando la casa iniziò a tremare e una bomba cadde a poche vie da noi. Quel giorno è iniziato l’inferno».

Il libro, introdotto dal console generale d’Ucraina a Milano Andrii Kartysh, ricostruisce l’anno della “permaguerra” alternando la cronaca dei fatti al ricordo doloroso delle profughe. A firmare le due prefazioni sono il presidente di Fondazione Progetto Arca, Alberto Sinigallia, e il presidente di Fondazione Fiera Milano, Enrico Pazzali: insieme hanno unito le forze per realizzare l’hub di accoglienza di via Sammartini a Milano. La postfazione è stata scritta dal presidente del Centro Studi Esercito e docente di peacekeeping all’università Lateranense, il generale Salvatore Farina, capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal 2018 al 2021.

Nel libro Poletti ripercorre i fatti più terribili della guerra in Ucraina, dalla strage di Borodyanka a quelle di Bucha, Irpin, Kharkiv, Kramatorsk, Mariupol e Zaporizhzhia.

Irina, madre di Arina, una danzatrice di 15 anni ospitata all’Accademia ucraina di balletto con sede in via Quadronno a Milano, riferisce: «Sparavano alle auto sulla strada e l’intera città era ferma ai posti di blocco. Per tre o quattro giorni siamo rimasti in casa e abbiamo sentito solo esplosioni, spari dalla strada e il rumore dei carri armati e dei mezzi corazzati militari che viaggiavano lungo le strade».

Ricordano, raccontano e ringraziano le donne del libro di Poletti: «Grazie: questo è il primo pensiero che mi viene in mente. Grazie all’Italia e all’Europa che dicono di no, in tutti i modi, a questa guerra», sottolinea Giulia.

Anche Aliona ha belle parole per il popolo italiano: «Solidarietà: ho sperimento e vissuto questa parola sulla mia pelle. Sono scappata passando da Leopoli e poi, tramite la Polonia, sono arrivata in Italia. Ho sperimentato la corsa alla solidarietà che, quando non hai più nulla, ti porta a sperare in una nuova umanità: un’umanità di vita e non di morte, di pace e non di guerra».

Da Natalia arriva infine una proposta, rivoluzionaria: «Se il mondo fosse in mano ai bambini, la guerra non esisterebbe. Sono un’insegnante di una scuola materna che si trova vicino a Mariupol. Lavoro con i bambini da 18 anni: loro sanno che la guerra è brutta e che basta incrociare le mani e gli sguardi per fare la pace. Il mondo deve essere dei bambini».

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