Ha fissato in scatti di straordinaria bellezza le visioni oniriche di Federico Fellini, e non a caso è una sua foto scattata nel 1965, sul set di Giulietta degli Spiriti, l’immagine del manifesto della ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma. In programma dal 15 al 26 ottobre, la kermesse della Fondazione Cinema per Roma celebra Franco Pinna (1925-1978) nel centenario della nascita. Un omaggio con tre mostre dedicate al grande fotografo, uno tra i più importanti del secolo scorso e senza dubbio uno dei più versatili per la sua capacità di spaziare dal ritratto artistico ai reportage antropologici e sociali, ai set del cinema. Un centinaio di scatti del suo repertorio cinematografico (anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) sono raccolti nella mostra “Franco Pinna-Mondocinema”, aperta dal 15 al 27 ottobre nel foyer della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone; la seconda esposizione, “Franco Pinna e Pier Paolo Pasolini-Viaggio al termine del Mandrione”, con il reportage del 1956 nella borgata romana, sarà alla Casa del Cinema dal 10 ottobre al 30 novembre. La terza mostra, “Franco Pinna-Fellini in scena!”, verrà allestita all’aperto lungo Via Veneto, la leggendaria strada della Dolce Vita.

Ha girato l’Italia e il mondo in lungo e in largo, e in questo suo viaggio fece tappa più volte in Sardegna. Nel novembre 1953, giovanissimo, era approdato a Orgosolo. Da solo, come aveva sempre sognato, tanto che l’anno prima disse no anche a Franco Cagnetta che lo invitava a seguirlo (assieme a Plinio De Martiis, Pablo Volta e al reporter di guerra americano Sheldon M. Machlin che nel 1957 vinse il Premio Pulitzer con la foto della stretta di mano che sanciva la fine della disamistade tra i Corraine e i Succu) nel suo viaggio-inchiesta in Barbagia. Era arrivato - in un paese blindato dal coprifuoco e invaso da centinaia di poliziotti dopo il rapimento finito nel sangue dell’ingegnere Davide Capra - con l’idea di fotografare il famoso latitante Pasquale Tandeddu, il bandito diventato comunista nei salti del Supramonte. Non ci riuscì: il ricercato (che venne ucciso l’anno dopo in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine) era disponibile a farsi intervistare, però non voleva posare davanti a un obbiettivo.
Ne fece tante altre, di foto, a Orgosolo e in altri centri dell’Isola: da Alghero a Santu Lussurgiu, da Lula a Mamoiada, da Iglesias a Cagliari, a Porto Torres. Centinaia di immagini per cogliere lo sguardo rassegnato dei minatori del Sulcis, il guizzo muscolare delle tonnare di Stintino, il sudore e la polvere della processione a cavallo verso il santuario di San Francesco di Lula. E poi i paesaggi desolati della strada Macomer-Bosa, la solitudine urbana del Dancing di Quartu con il juke box e una coppia che balla nello spiazzo assolato. E le donne, quelle della Barbagia coperte come musulmane integraliste; quelle con le caviglie scoperte: la sposa di Porto Torres con i tacchi a spillo e la gonna a corolla; la signorina del distributore Esso di Iglesias, che porta gli zoccoletti leziosi e troppo piccoli.
Ma sono le foto scattate a Orgosolo quelle più intense. Dopo quel primo viaggio barbaricino nel 1953, aveva documentato le borgate romane assieme a Pasolini, il mondo politico e culturale capitolino con Camilla Cederna per L’Espresso, i giacimenti di petrolio in Libia con Zavoli per il Radiocorriere Tv, i grandi fatti di cronaca nera per Noi Donne, le dive della Dolce Vita romana, ed era tornato in Sardegna nel 1961 per raccontare quel che restava di un mondo antico.

Venne ospitato in casa di Umberto Goddi, il barbiere amico di Franco Cagnetta che lo aveva accolto durante il primo viaggio. L’Orgosolo che Franco Pinna, con la Leica e la Rolleiflex, racconta nel ‘61 è ancora solo per poco quella che conobbe otto anni prima. «La Sardegna che non esiste più, ma che sai riconoscere, se vuoi», diceva. La Sardegna che ritrovava nel viso segnato di tziu Perdu Sini, 94 anni, la giacca di velluto coperta con la pelle di pecora usata anticamente dai pastori. È un totem, il vecchio, che - seduto davanti al tavolino di un bar, i gomiti poggiati sulla tovaglia incerata - raccontava di quando, nel 1899, arrivò l’esercito per stanare i banditi tra Nuoro e Orgosolo. E più che la foto degli uomini in gambali davanti al bancone del zilleri (una delle più conosciute visto l’impatto scenografico), è bellissima quella con gli anziani al sole (c’è anche un vedovo con la fascia nera al braccio come usava una volta) che giocano alla morra, e sullo sfondo quattro bambini che danno calci a un pallone nel campo sportivo, spazio immenso e desolato.
È la Sardegna che resiste nei riti funebri ormai scomparsi altrove: la veglia, il canto delle prefiche, le preghiere e le orazioni che si tramandano di generazione in generazione. E fu proprio nel ‘61 che Franco Pinna fece uno di quei reportage apparentemente minimi e invece massimamente straordinario dentro la liturgia della morte. Seguì le prioresse che, da secoli a Orgosolo, garantiscono un funerale democratico a chiunque, dal possidente più ricco al servo pastore più povero. Pinna seguì l’intero percorso del definitivo addio, fotografando le consorelle delle quattro confraternite - tutte vestite di nero, gli scialli immensi di tibet e spugna, i fazzoletti che coprono la bocca - mentre recitano i quindici Requiem e l’Agnus Dei e il Miserere. Fotografò sa roda, il cerchio delle donne che piangono e si disperano, mentre le prefiche cantano, lodano il defunto e tutti i parenti ormai beati. È un’immagine bellissima: le vecchie sedute sul pavimento di graniglia, tutte con gli occhi bassi, e sullo sfondo un camino, una credenza e una cucina a gas. È una stanza spoglia, niente ninnoli o soprammobili: solo una sveglia, e - particolare rivelatore dell’accoglienza che non manca neanche nella casa del lutto - tre caffettiere e una tazzina del servizio buono. C’è poi la foto, quella della sepoltura di un pastore, che venne pubblicata qualche anno più tardi su L’Espresso: qualche lapide, qualche tomba più ricca sullo sfondo e poi una distesa di croci di legno attorno alla buca scavata di fresco dagli uomini che adesso sistemano la bara aiutandosi con una fune, mentre tre vecchie pregano e due bimbi osservano la scena.
Era quella l’Orgosolo che Franco Pinna cercava. Tornò ancora, fino al 1967, quando le sue foto erano ormai affollate da troppi baschi blu e da troppi posti di blocco della polizia. Arrivò in paese con l’idea di restarci un attimo, per i saluti. Ci restò tre giorni. Ma dopo andò a cercare altrove lo spirito di una terra che non c’era più.

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