Appassionata di fiori, la madre sapeva quel che faceva quando ha chiamato la figlia Myosotis: non ti scordar di me. E l'unica femminuccia di tre fratelli in casa Massidda ha fatto di tutto per farsi ricordare. A otto anni ha vinto il primo titolo sardo di ginnastica artistica e da lì non ha più smesso: campionati italiani, maglia azzurra, tornei internazionali. In vetta fino al ritiro. «Ero sempre a testa in giù, perché non distruggessi tutto quel che capitava a tiro i miei genitori mi hanno iscritto all'Amsicora». E Renzo Mattei ha intuito subito le capacità di quella bambina. Che pure la prima volta si era allarmata: dove mi hanno portato? «Ma dopo aver visto capovolte e verticali ho pensato fosse il posto giusto». Neanche un anno ed era nella preagonistica tanto da dover abbandonare la piscina dove nuotava tre volte alla settimana: «Ho scelto io». Volteggio, trave, corpo libero e parallele: allenamenti dalle 18.30 alle 23. Tutti i giorni. «A 12 anni ho partecipato a un campionato interregionale a Palermo dove mi ha visto il tecnico federale Gianfranco Marella».

Le suore

Dodici mesi ed era via di casa, a Fano, in provincia di Pesaro, all'accademia della federazione nazionale, in vista delle Olimpiadi. «Vivevo in un convento con altre nove ragazze». Bello, sì, ma traumatico: scuola dalle 8 alle 10, palestra fino alle 13, pranzo, di nuovo scuola per due ore e poi ancora allenamento per altre quattro. «Non vedevo quasi mai i miei genitori: i voli erano carissimi e bisognava fare scalo a Roma, senza contare che ogni fine settimana gareggiavo. Era il 1990, non c'erano i cellulari, potevo fare solo qualche telefonata la sera». Nessuna gita né festa, niente di niente. Neanche un fidanzato? «Quello sì». Atleta azzurro come lei, da incontrare di nascosto dalle suore. Quindi: quasi mai. «Vincevo molto al volteggio ma la mia specialità era il corpo libero». A 14 anni ha vestito la maglia azzurra in un incontro juniores Italia-Cecoslovacchia: vittoria. «Il mio coach era russo e mi allenavo con campionesse del calibro di Svetlana Khorkina, Oxana Chusovitina, Rosa Galieva». Aveva una borsa di studio: «Dieci milioni di lire all'anno, una miseria, se avessi fatto calcio e fossi stata uomo sarei diventata ricca».

Vita durissima

Invece doveva pure seguire una dieta ferrea: «Ho conosciuto i crampi per la fame, ci controllavano mattina e sera, prima e dopo ogni allenamento, se il peso aumentava ci toccava doppia razione di potenziamento». E sì che era un gran faticare: «D'estate alle 6.30 ero già in pedana con un cucchiaino di miele energizzante, alle 8 colazione, poi di nuovo in palestra: dodici ore in tutto. Tre giorni di vacanza all'anno». Passione e motivazione. «La cosa più importante è la disciplina». Il volto abbronzatissimo circondato da una folta chioma di capelli biondi si allarga in un sorriso smagliante. «Si piange: alle parallele si rompevano i calli e col sangue nelle mani si doveva continuare». Il padre le diceva: sei pazza. No: era solo determinata. Con l'Alma Juventus ha conquistato la serie A nell'individuale. E ha vinto. Si stava allenando per le Olimpiadi di Atlanta del 1996. «Mi sono infortunata». Il crociato era rotto da un anno, il ginocchio si gonfiava eppure non si era fermata. Ed è arrivato il conto: intervento chirurgico, lungo stop. «È stato impossibile recuperare». Aveva 17 anni quando è tornata a Cagliari: «Nuovo trauma: non conoscevo nessuno, mi sono iscritta in una scuola privata, avevo un sacco di tempo libero. Ero spaesata, per un anno e mezzo non ho voluto sentire nulla di ginnastica artistica, non la guardavo neppure in tv».

Il nuovo inizio

Intanto si riprendeva la sua vita mentre anche il corpo rifioriva. «C'è una rallentamento della velocità della crescita dovuto alle ore di allenamento, quantità e volume: molte ginnaste a 14 anni hanno il fisico di una bambina di nove. Quando si smette si recupera tutto». Diciotto mesi per elaborare la situazione poi il ritorno a casa: «L'Amsicora». Di nuovo in pedana come allenatrice e siccome si chiama Myosotis non poteva farsi dimenticare, così a 24 anni era già nella federazione regionale: «Per quattro anni ho allenato atleti come Laura Agostini e Federica Caddeo». Si è iscritta all'Isef (diploma col massimo dei voti) poi in Scienze motorie (lode e bacio accademico), si è specializzata in Scienze dello sport (altro bacio e menzione speciale). «Ed è nata la mia attuale passione: la ricerca scientifica». Ottenuto un dottorato di ricerca («la prima sarda») nel 2007, da allora studia «le relazioni tra il Dna e le risposte all'attività fisica». In altre parole: campioni si nasce o si diventa? «Si nasce ma senza allenamento non si va da nessuna parte, il talento va coltivato».

Il figlio

Ha avuto pure il tempo di mettere al mondo Leonardo: «Ha quasi sei anni e mi ha detto che vuole fare il calciatore». Dopo un secondo dottorato in Scienze della vita ha conseguito l'abilitazione come professoressa associata per insegnare Antropologia e Scienze dello sport. Con oltre trenta pubblicazioni - incredibile ma vero - a 42 anni è ancora precaria: «Appena esce il bando faccio il concorso». Tanto ha conservato pazienza e tenacia: «Lo sport ti insegna a non mollare anche se la situazione si fa tragica, come in questo momento». Ferma, senza contratto, a dispetto di collaborazioni con Australia e Sud Africa e da, dieci anni, anche col Cagliari calcio: studia la predisposizione agli infortuni muscolari. «Sono quello che sono perché ho fatto quello che ho fatto, dell'esperienza sportiva resta tutto: si impara a vincere e soprattutto a perdere». Con una differenza: «Nello sport se ti alleni vinci, fuori dalla pedana devi tirar fuori qualcosa di più, perché non sempre dipende da te».

Ma si chiama Myosotis e c'è da giurarlo: ce la farà. E neanche stavolta ci scorderemo di lei.

Maria Francesca Chiappe
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