Ma chi lo ha detto che i figli dei campioni sono destinati a vivere all'ombra dei genitori? Se un padre ha collezionato sette scudetti eguagliarlo è difficile, certo. Ma non impossibile. Chiedete ad Antonio Maxia. Quante volte ha vinto il titolo italiano di hockey su prato? «Sette». Talis pater... «Ho imparato a camminare e già avevo il bastone in mano». Lo seguiva nelle trasferte «ma non ho mai voluto emularlo, è stata un'evoluzione naturale». Nel dopoguerra il professor Filippo Vado aveva portato all'Amsicora uno sport di squadra che si gioca all'aperto su campi in erba, proprio come il calcio, e Giovanni Maxia, di professione medico, era stato coinvolto in un'impresa straordinaria che è continuata con il figlio e non è ancora finita. «All'inizio giocavo anche a basket, all'Esperia. Erano i tempi di Enrico Pitzianti, Francesco Ferrero e Roberto Fancello». La mattina l'hockey, poi la scuola al Michelangelo e dopo la pallacanestro. «A 13 anni ho dovuto scegliere». Hockey, ca va sans dire.

Senza luce

Allenamento prima dell'alba, al buio: «Si faceva quel che si poteva fino a quando sorgeva il sole, l'orario andava bene a tutti, studenti e lavoratori, grandi e piccoli». E siccome ha ereditato geni buoni a 18 anni era già in azzurro con la prima squadra. «All'epoca arrivava il telegramma a casa, lo aveva preso mia madre». Ed era partito per i Giochi del Mediterraneo a Spalato: «Quinto posto, non male». Il primo scudetto è arrivato l'anno dopo: 1980. «Era una gara a due con l'Hockey club Roma ma se perdevamo la colpa era nostra, troppo convinti. Succede: quando vinci sempre tendi a rilassarti». Del resto era tutto molto facile con Alberto Aramu e Giampaolo Medda in panchina e i fratelli Giuliani e Alessio Raggio in azione. «Io giocavo centrocampista». E Maxia padre? «Sempre lì però mai invadente». Nulla a che fare con certi genitori di oggi. «Io lo vedo che cosa succede sugli spalti del basket femminile». E non solo.

Il medico in campo

Un altro mondo. «A scuola lo sapevano che giocavo ma non facevo troppe assenze, le partite erano di domenica. E poi il meglio è arrivato quando studiavo all'università». Già che c'era si esercitava. «Vabbè... sì, suturavo le ferite dei mie compagni, col bastone qualche volta ci si fa male». Si rifiuta di abbinare sport e sacrificio: «Sarebbe una bugia, quando una cosa ti piace non c'è rinuncia, e non solo nello sport. Andare a letto presto perché il giorno dopo ti devi allenare non è un sacrificio». Ancora oggi che, manco a dirlo, fa il medico come il padre, «chirurgo cardiovascolare», la sveglia suona alle sei e trenta. «In reparto mi temono tutti». Alle otto è pronto in sala operatoria. «La mia vita non è cambiata». Gli orari di sicuro no.

Il triathlon

Ha smesso di giocare nel 2000, a 39 anni: «Ero grande e stavo lavorando molto, lo sport di squadra ti vincola». Però si allena sempre. Forse anche di più: Antonio Maxia è uno di quelli che si vedono al Poetto con sole, pioggia, vento o freddo. «Nuoto, bici, corsa, le attività che consiglio ai miei pazienti». Una alla volta, però. Ride di gusto, come un bambino colto con le mani nella marmellata: «Ebbene sì, faccio gare di triathlon e mi alleno con mia moglie che fa il mio stesso lavoro: è un'occasione per stare insieme». L'impressione è che invece stiano insieme proprio perché corrono, nuotano vanno in bici e sono medici, ma tant'è. «Sono sport in linea a basso traumatismo e si possono fare tutta la vita. Non bisognerebbe mai smettere di muoversi e magari si dovrebbero buttare cellulari e telecomandi».

La grande lotta

Le figlie hanno scelto basket e pallavolo «ma la generazione Maxia continua nell'hockey su prato: mia cugina Stefania ha sposato Roberto Giuliani e i loro due figli giocano uno nell'Amsicora l'altro nel Bra». La novità è solo il derby familiare. Ma in quella casa alle battaglie sono abituati. «Avevo lottato in maniera pesante contro i vecchi soci dell'Amsicora che non volevano il campo in erba sintetica. Noi che avevamo giocato con la Nazionale in mezzo mondo - Malesia, Messico, Russia - ci eravamo resi conto di quanto fosse meglio». Il vice presidente Pasquale Mistretta era d'accordo e aveva fatto costruire un campo al Casic. «Quelli dell'atletica, soprattutto per il giavellotto, puntavano sull'erba, e pure i nostalgici di Gigi Riva che su quel campo aveva vinto l'unico scudetto rossoblù». Il presidente Ruggieri era per il no «ma poi eravamo riusciti a portarlo dalla nostra parte». Era nato così il primo campo in erba sintetica d'Italia. Figurarsi se potevano non spuntarla.

La mentalità

Un rimpianto però ce l'ha: le Olimpiadi. «Saremmo potuti andare a Mosca ma eravamo riserve e il Coni aveva detto no». Per il resto solo ricordi felici. «Quando hai la giornata piena perché devi studiare e allenarti sei più concentrato, fai più cose e anche meglio». Questo vale ancora oggi: «Non potrei fare il medico senza una mentalità così quadrata, che ha solo chi ha fatto sport. In campo impari le regole: si gioca per vincere e sarebbe un errore accettare la sconfitta che però devi capire per aggiustare le cose che non vanno». In sala operatoria, dice, è lo stesso: «Il debriefing è uno degli aspetti più importanti nella medicina attuale: imposti una terapia, vedi il risultato e se qualcosa non va aggiusti il tiro».

In sala operatoria

Ma quell'emozione lì, quella del gol, dello scudetto, del telegramma con la convocazione in Nazionale, si prova anche dopo? Antonio Maxia per un attimo spegne il sorriso. Non vuole entrare nel cuore di una professione che per natura aiuta gli altri. Non dice nulla ma si intuisce: sì. L'emozione c'è, ancora e sempre, tutte le volte che esce dalla sala operatoria. E qui gli scudetti sono molti più di sette.

Maria Francesca Chiappe
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