«Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte nei paesi industrializzati, sia in persone di sesso maschile che femminile. La manifestazione clinica più comune è la cardiopatia ischemica dovuta alla patologia aterosclerotica delle arterie coronarie. L’aterosclerosi è un processo infiammatorio cronico della parete interna dei vasi arteriosi, caratterizzato dall’accumulo di materiale lipidico (colesterolo), tessuto fibroso, cellule muscolari lisce della parete del vaso e cellule infiammatorie».

Introduce così l’argomento principale di una puntata di “15 minuti con…” — il talk di approfondimento sulla salute dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari, in collaborazione con il gruppo Unione Sarda — la professoressa Roberta Montisci, direttrice della Cardiologia del policlinico Duilio Casula, che ha risposto alle domande poste in studio dal giornalista Fabrizio Meloni, responsabile Comunicazione e relazioni esterne dell’Aou.

«Lo sviluppo dell’aterosclerosi inizia in età giovanile e progredisce sotto la spinta dei fattori di rischio cardiovascolari, condizioni proprie di ciascun individuo e per via delle quali aumentano la probabilità che il soggetto possa sviluppare una patologia a carico delle arterie su base aterosclerotica», afferma Montisci, specificando che «la velocità con cui progredisce l’aterosclerosi e la sua severità sono fortemente dipendenti dalla presenza o assenza dei fattori di rischio cardiovascolari. La correzione dei fattori di rischio può evitare la progressione dell’aterosclerosi e ridurre la mortalità per infarto e ictus: infatti è il cardine della prevenzione delle malattie cardiovascolari. Alcuni fattori di rischio come l’età, il sesso, la familiarità, una storia pregressa di malattia cardiovascolare non sono modificabili, ma dobbiamo agire ed educare la popolazione a controllare i fattori modificabili come il fumo, l’obesità, soprattutto l’obesità addominale, l’ipercolesterolemia, il diabete, l’ipertensione arteriosa, una vita sedentaria».

«Ogni anno in Italia 130 mila persone vengono colpite da infarto», sottolinea la professoressa, «ossia la necrosi, cioè morte del tessuto miocardico per occlusione trombotica di un’arteria coronarica. Il periodo di tempo più critico nell’infarto è la sua fase più precoce: il 28% dei decessi si verifica nel corso della prima ora, il 40% nelle prime 4 ore e il 51% nel corso del primo giorno. La pronta riperfusione (riapertura) dell'arteria correlata all'infarto limita la necrosi miocardica, preserva la funzione cardiaca e riduce il rischio di mortalità. Per queste ragioni è importante sensibilizzare i cittadini a riconoscere i sintomi di un possibile infarto e allertare subito il 118 e la rete dell’emergenza che consente la diagnosi extraospedaliera e il trasferimento diretto del paziente in sala di emodinamica, così da attuare una rapida riapertura della coronaria attraverso l’angioplastica primaria».

Luca Mirarchi

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Il problema del Long Covid

A corto di personale nel 91% dei casi e di letti nel 70%, gli ospedali sono in affanno tra Covid, Long Covid e gli altri pazienti che tornano a bussare alle loro porte. Gli ospedali restano sotto stress, dovendo fare i conti con una situazione complessa di post emergenza. Il Long Covid continua a perseguitare anche dopo la guarigione un paziente su dieci, ma nel 50% dei casi i servizi dedicati per prestare loro assistenza sono ancora insufficienti.

Gli assistiti sono tornati a bussare alle porte degli ospedali, mettendo a nudo i problemi di sempre: carenza di personale, lamentata nel 91,7% dei nostri nosocomi, mancanza di posti letto (nel 70,8% dei casi), difficoltà organizzative (75%). Con le conseguenza di uno stress gestionale e di liste di attesa a smaltimento lento. Il tutto con le problematiche poste dalla necessità di conciliare i percorsi dei pazienti Covid con quelli non Covid, che comunque distraggono personale e letti, mettendo in difficoltà il 70,8% delle strutture.

A fotografare lo stato di affanno della rete ospedaliera italiana nell'era post-emergenza è la Survey lanciata da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, che hanno in carico il 70% dei pazienti Covid. L'indagine ha coinvolto tutte le regioni. A fronte di un 54,2% degli ospedali che non ha rilevato infatti alcuna recrudescenza delle malattie infettive no-Covid rispetto all'era pre-pandemica, il 37,5% ha denunciato un aumento, sia pur lieve. Consistente nell'8,3%% delle strutture.

In oltre il 60% dei casi invece l'abrogazione dell'obbligo delle mascherine in molti luoghi anche al chiuso e la cancellazione delle altre restrizioni è probabilmente alla base dell'aumento dei pazienti con malattie infettive ricoverati recentemente negli ospedali. Aumento consistente nel 16,7% delle strutture, lieve nel 45,8%.

Tornando al Long Covid nel 58,3% degli ospedali i pazienti che non si liberano dei postumi dopo essersi negativizzati sono tra il 5 e il 10%, nel 29,2% tra il 10 e il 20%, mentre solo il 12,5% è sotto la quota del 5%. In media quindi un paziente su dieci ne è afflitto, ma nel 50% degli ospedali i percorsi dedicati all'assistenza dei pazienti Long Covid non sembrano essere sufficienti rispetto ai bisogni.

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Parlare al malato, una terapia indispensabile

A volte non abbiamo idea di quanto bene possiamo fare per una persona che magari non è al meglio delle sue condizioni psicofisiche semplicemente parlandole. Dedicandole attenzione. Facendo capire che siamo vicini a lei. Anche quando magari il suo pensiero non corre più fluido, la memoria comincia a fare cilecca e l’interlocutore sembra non ascoltare. La parola, con il tono giusto, può diventare un vero e proprio strumento terapeutico. A volte parlare con una persona vale come un trattamento, specie se abbiamo davanti chi comincia ad avere segni di decadimento cognitivo e al contempo soffre di depressione o di ansia. Altrimenti si rischia di affidarsi esclusivamente alla chimica che, può non rivelarsi vincente e addirittura avere effetti indesiderati che sarebbe meglio evitare, vista la fragilità psicologica, emotiva e fisica. Il monito nasce da una sorta di analisi comparata di diversi studi sulla tematica raccolto in un documento di Cochrane Review. Sintesi finale: in queste fasi di iniziale decadimento, gli interventi psicologici, basati fondamentalmente proprio sulla parola e sul linguaggio, sono efficaci ed utili anche quando i farmaci per ansia e depressione non espletano come ci si attende la loro funzione. Per chi si occupa di problemi di questo tipo, la sensazione che la parola possa diventare uno strumento di cura è davvero importante. Chi affronta il decadimento cognitivo avrebbe il doppio del rischio di depressione di un pari età che invece non manifesta condizioni simili. Oltretutto depressione e ansia possono anche aumentare la gravità del danno neurologico stesso, riducendo così l'indipendenza e aumentando il rischio di accedere all'assistenza a lungo termine. Pare proprio che i trattamenti psicologici per le persone con demenza possono migliorare non solo i sintomi depressivi ma molti altri esiti, come la qualità della vita e la capacità di svolgere le attività quotidiane.

Federico Mereta

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