“Insieme a te non ci sto più”, ma “se mi lasci non vale” (cit.). Questo sembra essere il confuso paradigma sintetico della parabola del Governo dei Migliori, contraddittoria nella sua essenza ontologica quanto incerta nel suo divenire. Ma dopo i fatti della settimana appena trascorsa, dopo lo “strappo” perpetrato da Giuseppe Conte e dal suo Movimento 5 Stelle, possiamo affermare che sia venuto meno il rapporto di fiducia che dovrebbe intercorrere tra Governo e Parlamento con conseguente obbligo di dimissioni del primo? Intendiamoci: non è che sia poi così importante sciogliere il nodo formale allorquando sia sufficiente sapere, come nel nostro caso, che le crisi di governo attengono “strictu sensu” alla patologia del sistema parlamentare ma, molto spesso, quelle stesse crisi si sono addirittura rivelate come un indicatore assai prezioso delle trasformazioni in atto, del passaggio da un “prima” a un “dopo” nel contesto del quale il “terreno di mezzo” nasconde in sé la chiave di volta utile a interpretarle.

Se così dovesse essere, ossia se non fosse così importante sciogliere il nodo formale, allora il tentativo in extremis di Sergio Mattarella per cercare di “parlamentarizzare” la crisi facendo leva sulla “disperazione” della carica di quelli del 2% capeggiati da Matteo Renzi e Giggino Di Maio ben potrebbe non sortire gli effetti sperati siccome assai raramente la discussione parlamentare si è conclusa con un voto esplicito. Ma se anche fosse e se, quindi, il Governo si trovasse, pur dimissionario, a restare in carica fino alla formazione del nuovo esecutivo unicamente per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione proprio alla stessa stregua del Governo appena formatosi in attesa di fiducia da parte delle Camere, quale sarebbe il problema? Evidentemente nessuno per il semplice fatto che l’eventuale “problema” continuerebbe a sopravvivere nelle preoccupazioni di chi ha più di una difficoltà ad abbandonare la propria “seggiola”.

Eppure, ma sarebbe più corretto dire “infatti”, sia pur non comprendendone il perché, le “urne” continuano a profilarsi come lo spettro nero incombente sulle sorti dei parlamentari di turno, sempre assai poco inclini a sottoporsi al giudizio popolare per non essere in grado di orientarne il comportamento. Se il gran rifiuto del Movimento 5 Stelle di sostenere una mozione di fiducia al Governo Draghi dovesse aver fatto piombare il Paese in una condizione di incertezza politica (tutta ancora da considerare in realtà), allora, parimenti, anche la decisione di Sergio Mattarella di respingere al mittente le dimissioni del Presidente del Consiglio dei Ministri potrebbe condurre alla medesima conclusione di incertezza, perfino ulteriore rispetto a quella pretesa come “originaria”. Ma allora: nella situazione data, è meglio l’uovo oggi o è meglio la gallina domani? Sarebbero maggiormente opportune le elezioni anticipate da tenersi non prima della fine di settembre, oppure sarebbe meglio insistere su un governo di transizione guidato da Draghi?

Se davvero volessimo sciogliere questo nodo, in apparenza davvero troppo stretto, allora dovremmo guardare tutta la vicenda da un angolo visuale differente, ponendoci interrogativi diversi perché, oramai lo sappiamo, l’efficienza della risposta è direttamente riconnessa alla puntualità della domanda. Quale è, allora, il valore del “voto” in Italia? Ha saputo essere determinante e chiarificatore nel corso degli anni susseguitisi dalla caduta del Governo Berlusconi ad oggi? La risposta è amara, e vale unicamente a sottolinearne l’insignificanza formale e sostanziale.

Intanto perché, a prescindere dalla coalizione che riesca ad imporsi come vittoriosa, alla fine il risultato è sempre lo stesso: tanto i partiti vittoriosi, quanto quelli vinti, tutti insieme appassionatamente, paiono trovare sempre la maniera di “azzerare” il risultato regalandoci un triste risveglio all’indomani dello spoglio. Quindi perché, anche da ultimo, pur vincendo la coalizione di centro-destra, il partito capofila (la Lega per intenderci) è andato a governare con quello capofila della coalizione di centro-sinistra (il Movimento 5 Stelle) di fatto vanificando gli effetti della volontà popolare. Poi perché, come era altamente prevedibile, la accoppiata giallo–verde è scoppiata, e invece di vedere restituita la parola agli italiani, ci siamo dovuti sorbire la “nascita in provetta” di un governo giallo-rosso di perdenti (nella circostanza) di super sinistra. Inoltre perché, malgrado l’assonanza ideologica tra i due partiti componenti (Partito Democratico e Movimento 5 Stelle), si è riusciti a mandare in malora pure quello grazie all’intervento a gamba tesa di Matteo Renzi, ansioso di porre un argine al protagonismo indiscusso di Giuseppe Conte che, al tempo, andava accreditandosi quale “homus novus” del centro-sinistra. Infine perché a cagione delle varie manovrine di palazzo, ci troviamo oggi con un “minestrone arcobaleno” a trazione Mario Draghi che, a ben considerare, ci ha confuso al punto tale da averci fatto scordare a favore di chi avevamo espresso il nostro voto a marzo dell’anno 2018.

In che modo, dunque, dovremmo sperare di uscire da questa impasse? Molto banalmente sarei portata a sostenere che se la finanza internazionale è in fibrillazione per la “cacciata” di Mario Draghi, allora, forse, dobbiamo insistere su quella via se il “dissenso” ha ancora, come io credo, il suo bel contenuto valoriale. Con buona pace di Sergio Mattarella, di Joe Biden, e di tutte quelle Cancellerie Europee che finora hanno voluto fare affidamento sull’obbedienza alla linea programmata da parte del nostro Presidente del Consiglio. Se le parole conservano un loro peso, mercoledì Mario Draghi dovrebbe essere conseguente e confermare il proprio intendimento iniziale: “non sono disposto a guidare un governo con un’altra maggioranza parlamentare”. Circostanza, quest’ultima, che racchiude in sé talune ineluttabili conseguenze. Quella per cui non sarebbe di certo l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle ad aver provocato la crisi siccome, altrimenti, lo stesso effetto avrebbe dovuto sortire la barricata di Matteo Salvini su Jus Scholae e DDL Zan. Quell’altra per cui, come sostenuto dal noto sociologo De Masi, l’opposizione motivata dei penta-stellati potrebbe aver costituito il pretesto ottimale per consentire a Mario Draghi di defilarsi dalle molteplici responsabilità d’autunno per dirla in breve.  Malgrado l’emergenza in cui versa il Paese, non paiono esservi sbocchi alla crisi in atto.

Poste sulla bilancia le varie circostanze di tempo e di luogo, alla fine, sia che si consenta a Mario Draghi di portare a compimento il suo percorso fino al 2023, sia che si opti per il voto anticipato a settembre, il risultato non sarebbe idoneo a modificare in positivo il trend del Paese. Pensar male è peccato, ma ci si azzecca: e se questa crisi fosse stata concordata per giustificare, agli occhi degli italiani e non solo, il fallimento delle politiche finora messe in campo? A conti fatti non parrebbero esserci le condizioni, eppure forzosamente la si vuole portare avanti malgrado non sia venuto meno, sulla carta, quel tanto famigerato rapporto di fiducia cui si faceva riferimento all’inizio della riflessione. Voto subito allora: sarà quel che Dio Vorrà.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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