Se per un verso, in merito ai casi Santanchè e Delmastro, l'esecutivo, nei giorni appena trascorsi, ha ritenuto di dover rivolgere ai magistrati l’invito a non occuparsi delle vicende politiche, l’Anm, per l’altro verso, secondo quanto si apprende dalle maggiori e più accreditate agenzie di stampa, ha ritenuto, invece, di dover invocare il principio del rispetto per l'indipendenza dei giudici e per la separazione dei poteri e, nel contempo, di dover rivendicare il proprio "dovere" di intervenire, esprimendo la propria posizione, sulle riforme che concernono la giustizia e che non possono essere presentate all’attenzione generale alla stregua di "misure punitive”.

La necessità di regolamentare le interrelazioni tra la magistratura e la politica, ragguagliandole alle dinamiche connotanti un qualunque Stato che voglia definirsi democratico e liberale, oltre che a un bilanciamento effettivo di tutti i principi costituzionali coinvolti, esiste da sempre, e parrebbe addirittura prescindere, sul piano squisitamente ideologico, dalla crisi (quanto meno tale parrebbe essere) avviatasi in occasione delle recenti vicissitudini. Ebbene. Da anni, dunque, oramai pare consumarsi lo scontro ideologico tra due dei massimi poteri dello Stato: e se è vero, come pare essere vero, che la separazione dei poteri è uno dei principi cardine del costituzionalismo liberale e, in quanto tale, dovrebbe apparire utile, come di fatto appare utile, a connotare, nella loro complessità, ed in buona parte, le stesse democrazie costituzionali, tuttavia, appare altrettanto vero, che non si possa pensare di trascurare la circostanza che, autore o, meglio, presunto tale, vittima/persona offesa, consociati/società civile e Stato parrebbero essere, e dovrebbero essere, i protagonisti di una equazione processualistico-normativa che dovrebbe rinvenire nel “garantismo” la sua chiave di lettura più ampia e razionale. Ma allora, se così dovrebbe essere, perché di volta in volta ci si trova ad assistere al consumarsi di uno scontro che più che sostenere l’intero impianto istituzionale nella sua interezza, sembrerebbe contribuire a de-funzionalizzarlo? Così come non sembra potersi pretendere di poter condizionare l’esercizio della giurisdizione, subordinandola al “favore” governativo, parimenti non sembra potersi pretendere di intervenire sulla indipendenza e terzietà, entrambe costituzionalmente garantite, dell’ordine giudiziario.

Il garantismo deve sempre e comunque fungere da faro imprescindibile dell’azione giudiziaria e politica. Siffatto presupposto dovrebbe ispirare, anche a voler prescindere dallo “scontro” tra poteri in atto, una riflessione, meditata ed attenta, sia di carattere teorico sia di carattere politico, sia di carattere processualistico.

La questione di fondo di una meditazione di siffatta consistenza, condotta nell’ottica funzionale e “costituente” dovrebbe primariamente condurre ad un “mutamento” di prospettiva sul ruolo e sulla finalità di ogni potenziale riforma giuridico-legislativa, la quale, e sembra pure ozioso doverlo rammentare, non potrebbe in alcun modo risultare “condizionata”. Solo nella piena e completa adesione a questa differente metodologia di approccio cognitivo ed ideologico, la cultura giuridica del Paese potrà non solo riallineare il tema del dibattito riportandolo sul terreno costituzionale, ma financo riaccreditare e focalizzare, indirizzandole sul piano di un contraddittorio legittimo, talune delle stesse argomentazioni alla base dell’incontro-scontro di opinioni/posizioni in atto. Le incomprensioni cui sembra assistersi fra giustizia e politica, da ultimo amplificate e sottolineate dalle vicende correnti soprattutto nei loro aspetti di impronta prettamente penalistica, parrebbero contribuire a rendere chiarezza in merito alle radici di quella che parrebbe apparire come una incompatibilità/fraintendimento di fondo tra l’esigenza di operare e deliberare secondo i dettami che dovrebbero essere propri di uno Stato costituzionale e quella di intervenire sui delicati equilibri tra i massimi poteri, ossia quello giudiziario e quello esecutivo, parimenti necessari ad assicurare il buon orientamento della società civile ed il cui confronto, anche acceso, non potrebbe che riverberarsi, come parrebbe riverberarsi, in senso negativo sulla società civile medesima. Dicendolo altrimenti: seppure appaia veritiera l’esigenza di avviare una discussione ed una programmazione di riforma concreta che si proponga di intervenire sul campo normativo e processuale in maniera coerente e razionale, tuttavia, sembra parimenti veritiero che siffatta riforma non possa né debba prendere le mosse da vicende che nulla parrebbero avere a che vedere con la esigenza primaria di garantire un complesso di norme funzionale e strutturato alle necessità dei consociati, per i quali, in buona sostanza, parrebbe venire in rilievo, e piuttosto, la esigenza di escludere ogni potenziale lesione del principio di uguaglianza di fronte alla legge.

Su questo, dovrebbero confrontarsi potere esecutivo e potere giudiziario operando ciascuno nel proprio ambito. Il garantismo è un carattere imprescindibile della legalità e della giurisdizione penale siccome concerne in maniera diretta ed immediata la tutela di tutti i consociati da ogni potenziale ed inaccettabile distorsione del diritto e del processo penale. Nel contesto va garantito sempre il lavoro della Magistratura e della Politica nei rispettivi ambiti e, parimenti, va tenuto in primaria considerazione il principio di cui all’articolo 27 della Costituzione per cui un qualunque imputato (quindi men che meno un indagato) non può essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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