Facciamo chiarezza. Non si può discutere di semi-presidenzialismo in Italia senza prima attraversare, e risolvere, le criticità che sottendono il dibattito politico-ideologico relativo alla forma di governo. E non si può discutere di semi-presidenzialismo prescindendo “in toto” da una riforma della Carta Costituzionale che possa rendere l’ipotesi non solo attuale, ma pure, banalmente, temporalmente duratura.

Il contesto politico istituzionale che, sull’azione determinante del Presidente della Repubblica in carica ha portato al Governo di Unità Nazionale a guida di Mario Draghi, costituisce contestualmente la causa e la spia di un tentativo di cambiamento di fatto, già in essere all’epoca di Mario Monti nel lontano 2011, e comunque inidoneo, ora come allora, ad infrangere il dogma del formalismo giuridico. Ed altrimenti non potrebbe essere considerata, per un verso, l’estrazione tutt’altro che partitica del Presidente del Consiglio dei Ministri, e considerata, altresì, per altro verso, la composizione solo apparentemente partitica del Governo, condannato a rimanere ripiegato su stesso in posizione di inefficienza decisionale “incidente” per non essere diretta espressione di una investitura formale proveniente dal corpo elettorale. “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso” recitava un antico adagio. Il Parlamento ha accettato supinamente il suo “limite invalidante” sotto gli effetti dell’ebrezza rancorosa renziana senza porre alcun “contro-limite” utile a ristabilire il giusto equilibrio nei rapporti interni tra Governo e Parlamento.

Il premier Mario Draghi (Ansa)
Il premier Mario Draghi (Ansa)
Il premier Mario Draghi (Ansa)

Di conseguenza, la distorsione è emersa in maniera evidente: Mario Draghi è divenuto, forse suo malgrado, l’emblema cristallino del vincolo all’autonomia dei Partiti, ed il suo Governo di Unità Nazionale, di conseguenza, ha costituito, e continua a costituire il meccanismo imperfetto di frattura del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento messo in moto in forza di un principio tanto accattivante sul piano ideologico quanto fallace su quello naturalistico: quello, per intenderci, relativo alla “personalizzazione” della politica, o meglio, dei suoi attori protagonisti. La suggestione sembra farla da padrone, ma non dobbiamo sorprendercene. Accade tutte le volte in cui l’inefficienza partitica lascia deliberatamente cadere sul tappeto le proprie prerogative di base per consegnare i sigilli del potere ad un certo “Qualcuno” astrattamente idoneo, per le sue pretese qualità personali “altre”, a personificare, per un lasso di tempo che si vorrebbe “limitato”, quell’ideale anacronistico di super – uomo sul quale far ricadere fiduciosamente, quanto rovinosamente, ogni responsabilità di Governo. Se sia più corretto discorrere nei termini riduttivi di “sospensione della democrazia” ovvero in quelli strettamente definitori di ritorno della “tecnocrazia” è questione, tutto sommato, scarsamente significativa. Ciò che rileva, piuttosto, è che la cosiddetta “questione democratica” si affacci nuovamente sul panorama parlamentare nonostante il carattere eccezionale delle circostanze che hanno contribuito a giustificare una “legittimazione” (quella di Mario Draghi per intenderci) non altrimenti giustificabile. Circostanza, quest’ultima, che tutto sommato ha una portata piuttosto rilevante sul piano del suo contenuto sostanziale. Intanto, perché presuppone, e davvero altrimenti non potrebbe essere, che la scelta del prossimo candidato al Quirinale debba avvenire a Costituzione invariata. Quindi, perché, allo stato, se proprio vogliamo dirla tutta, e considerata l’insufficienza numerica di cui attualmente gli schieramenti opposti dispongono, l’unico nome su cui verosimilmente potrebbe ricadere un consenso unanime è proprio quello di Sergio Mattarella.

Infine, perché la eventuale scelta di Mario Draghi si connoterebbe soprattutto per la sua inopportunità programmatica in ragione della necessità stringente dei Partiti di recuperare, sul piano politico istituzionale, quel minimo di credibilità utile a sostenere la campagna elettorale delle prossime competizioni politiche di rilievo nazionale le quali, a loro volta, presuppongono, alla base, una modifica importante della legge elettorale conseguente al famoso “taglio” del numero dei parlamentari. Insomma: come al solito, “tanto rumor per nulla”. La politica delle “scienze confuse” continua indisturbata a farla da padrone, prediligendo soluzioni ambigue ad ogni ipotesi di reale cambiamento anche perché il sistema politico italiano, nonostante tutte le sue insanabili debolezze endogene, non sembra aver consapevolmente mai desiderato, e comunque perseguito, la soluzione semi-presidenzialistica quale via di fuga rispetto al contesto di “transitorietà” costante. L’ipotesi, pertanto, evidentemente estemporanea, avanzata dal Ministro Giorgetti, e che ha fatto divampare un dibattito che pareva sopito, ha piuttosto la parvenza di una chimera da riesumare opportunisticamente in periodi di difficoltà per poi nuovamente immolarla all’altare del “bene comune” una volta che il panorama governativo si sia nuovamente assestato su un piano di stabilità quanto meno apparente. Tanto più, allorquando, il tutto debba essere ricondotto sul solco tracciato dal monolitico e combinato disposto degli articoli 95, 92 e 94 della Costituzione, a mente dei quali, rispettivamente, il Presidente del Consiglio (Mario Draghi) “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile … promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri”, mentre il Presidente della Repubblica, a monte, “nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri” in un contesto ove, il Governo, dovrà ottenere “la fiducia delle due Camere”.

Sistema politico e forma di governo non sono concetti alternativi. Per quanto forte, la tentazione di porli su un piano di identità è destinata a restare tale, a sopravvivere al solo livello concettuale di intento. E poi, siamo sicuri, per dirla chiaramente, che l’elezione diretta (da parte dei cittadini si intenda) del Capo dello Stato, sia davvero soluzione definitoria? Io non lo credo affatto. Se è vero, come è vero, che il Presidente della Repubblica deve garantire l’Unità Nazionale, essendone il garante politico, allora all’evidenza, considerata la centralità e terzietà della sua “Figura”, allo stesso non può ricollegarsi alcuna ipotesi di elezione diretta, non foss’altro per la difficoltà di ricondurre a quella stessa “Figura” fuori-uscita da una disputa elettorale, una efficace funzione di garanzia ed unitarietà per aver perso, per l’appunto, nell’agone della lotta, la propria necessaria terzietà. Non resta che tornare, dunque, con i piedi ben puntati per terra, e lasciare agli scanzonati queste inutili disquisizioni profetiche inidonee a superare ogni vaglio ideologico-speculativo prima ancora che formalistico. Che piaccia oppure no, quello di Sergio Mattarella continua ad imperare quale “nomen” utilmente spendibile perché l’unico a porsi verosimilmente come unitariamente condivisibile.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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