Il Governo di Destra di Giorgia Meloni, nelle sue varie articolazioni ministeriali, non manca di riservare molteplici spunti di riflessione agostani. Da ultimo, Matteo Salvini, alla guida del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, stando a quanto riportano le più importanti agenzie di stampa, ha annunciato di sentirsi «straconvinto di (voler) reintrodurre le Province», e ha annunciato di volerlo fare unitamente ad un ritorno al meccanismo della elezione diretta del Presidente e del Consiglio Provinciale.

Ammesso e non concesso che le Province siano mai state di fatto cancellate/abolite (magari parrebbero non esistere più solo come organismo politico), e ci sarebbe tanto da dire sullo specifico aspetto, quale ne sarebbe, sul piano teleologico, la necessità a tal punto stringente sorta e/o rafforzatasi, parrebbe, nel contesto di un incontro a Forte dei Marmi con gli amministratori locali? Che senso avrebbe, all’attualità, in un momento di difficoltà economica stringente, restituire consistenza (perché probabilmente di questo si tratterebbe più precisamente) ad un organo amministrativo intermedio chiamato appunto a fare da tramite tra i diversi comuni e la Regione se, nel frattempo, sono pure state istituite diverse città metropolitane il cui territorio di riferimento parrebbe coincidere con quello delle storiche province?

Dicendolo alla buona: nel corso degli anni, tutto sembrerebbe essersi trasformato e nulla parrebbe essersi distrutto nella mancanza di una riforma di rilievo costituzionale mai intervenuta sul punto. Ma, al di là di ogni stringente rilievo di carattere tecnico-giuridico, sembra proprio, e piuttosto, che la storia politica recente non abbia lasciato traccia di insegnamento alcuno, e se pure l’avesse fatto, probabilmente, quell’“insegnamento” di cui si sarebbe dovuto fare tesoro, parrebbe proprio essere stato dimenticato e/o accantonato.

Eppure sarebbe sufficiente, forse, ricordare le vicende, ed i correlati dibattiti, sviluppatisi in argomento nel pieno del cosiddetto quarto “Governo Berlusconi”, cui conseguì l’esperienza politica di Mario Monti sulla scorta della necessità di riportare a coerenza la situazione economica del Paese a volerlo dire semplicemente divenuta critica, stando ai rilievi “comunitari” del tempo, proprio a cagione della persistenza sul Territorio di organismi intermedi dispendiosi. Ma, anche a non voler scomodare quella esperienza governativa, “mutatis mutandis”, il punto, ad oggi, sembrerebbe essere un altro, se solo si considera che la riconsiderazione politica dell’ente Provincia, nelle sue linee essenziali, e salvo liminali differenze, sembrerebbe trovare la sua spinta propulsiva tanto nell’intendimento del centro-destra, quanto in quello del centro-sinistra Movimento 5 Stelle compreso.

Che si voglia prendere le mosse da una mancata riforma costituzionale per ritornare all’assetto ordinamentale e funzionale antecedente alla Legge Del Rio allo scopo di restituire consistenza sul piano sostanziale a quell’agognato binomio strumentale che pone in diretto collegamento l’esercizio della autonomia con la espressione dei meccanismi della politicità strettamente intesi sembrerebbe essere chiaro. Ma, intendiamoci: anche a tutto voler considerare e concedere, il ritorno ad un passato che pare oramai essere troppo lontano nel tempo per poter essere efficacemente rivalutato, non sembra porsi quale via utile da percorrere, siccome lo scenario territoriale del Paese non solo appare largamente mutato nelle sue varie articolazioni, ma anche, ed addirittura, assai poco adattabile ad una “restitutio” operata “sic et simpliciter” senza considerazione delle trasformazioni nel frattempo intervenute.

A chi gioverebbe, oggi, il ritorno dell’Ente Provincia nella sua funzione depotenziata a monte di intermedialità costante? Quale sarebbe oggi il vantaggio perseguibile sul piano della amministrazione della comunità territoriale unitariamente intesa? Quale vorrebbe essere il ruolo di governo da riconoscere all’Ente Provincia sul piano delle competenze trattandosi di ente, nella sua connotazione originaria, sovra-comunale e sotto-regionale? E come potrebbe rapportarsi, nei termini strettissimi della coesistenza, con le cosiddette Città Metropolitane che paiono oggi farla da padrone?

La situazione normativa che si verrebbe a rideterminare potrebbe non essere di agevole interpretazione e/o gestione. Intanto, perché il 6 maggio 2012 già si svolsero in Sardegna, per voler restare sul territorio, una decina di referendum regionali di cui cinque abrogativi e cinque consultivi. Quindi, perché proprio uno di rilievo consultivo aveva riguardato la abrogazione delle quattro province storiche della regione, ossia Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano. Inoltre, perché taluni altri, abrogativi, avevano ad oggetto la abrogazione delle province di allora nuova istituzione, ossia Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio, istituite appunto con legge regionale nel 2005. Infine, perché, entrambi i referendum popolari avevano avuto esito positivo innescando un percorso di riforma tutt’altro che di semplice fattura, sfociato nella legge regionale del giorno 4 del mese di febbraio dell’anno 2016, n. 2: "Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna" con la quale era stato approvato il nuovo assetto degli enti di area vasta.

È pure vero, tuttavia, che il 12 marzo 2022 la Consulta si è pronunciata a favore della Regione Autonoma della Sardegna con sentenza numero 68, dando di fatto via libera alla re-istituzione delle province soppresse con il referendum popolare ridetto creando, probabilmente non poca difficoltà a livello di coordinamento interno.

Forse sarebbe necessario rivalutare l’“imprinting” che la volontà popolare chiamata ad esprimersi sul piano referendario è realmente idonea ad esercitare prima di procedere con ulteriori iniziative politiche che rischierebbero di non essere perfettamente comprese dalla collettività dei consociati. Specie in un momento storico in cui le esigenze contingenti parrebbero essere altre, e di carattere maggiormente stringente, per la loro rilevanza nella gestione del quotidiano. E tanto più allorquando resti assai difficile spiegare, nell’attuale momento di crisi economica costante e di inflazione corrente, il perché del “revival” di un Ente da sempre considerato centro di spreco. E ancor di più allorquando, il volersi concentrare su un dibattito politico attualmente non proprio stringente, non pare porsi quale segnale utile per un Paese quale quello italiano, che necessita di riprendere il percorso di crescita economica che la fase pandemica prima e la guerra poi paiono aver compromesso.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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