Se si tratti di una forma alternativa di democrazia o, invece, di un puro e semplice esercizio di dispotismo, sarà la storia a raccontarcelo. E probabilmente non dovremo neppure attendere troppo. L’ipotesi di un Mario Draghi al Quirinale, quale successore “emerito” di Sergio Mattarella, magari insignito “per acclamazione”, e di un suo fido “collaboratore” a Palazzo Chigi, quale interprete ed esecutore privilegiato dei “diktat” provenienti dal nuovo potenziale “chef supreme” (l’uso del francese non è affatto casuale purtroppo), segnerebbe di fatto e nei fatti l’apoteosi del disfattismo democratico ed il definitivo oscuramento di ogni meccanismo di controllo, di regolazione e di contrappeso dei poteri dello Stato.

Ci troviamo tra l’incudine ed il martello: tra l’esigenza di salvaguardia dei principi democratici sia rispetto alle innumerevoli patologie del sistema, sia rispetto alla loro stessa natura “bifronte” e, quella (esigenza si intenda) di arginare, facendovi fronte, la crisi della politica considerata nel suo complesso soggettivo ed in quello più specificatamente organizzativo. Eppure, il “silenzio-assenso” sulla deriva istituzionale del Paese sembra essere divenuto il caposaldo dell’azione politica corrente. Mario Draghi, nel volgere dei pochi mesi trascorsi dal momento del suo “forzoso” (mi si consenta l’espressione) insediamento, è divenuto l’emblema dell’inutilità del Parlamento e dei suoi numerosi rappresentanti. Tradotto in soldoni, e lasciando da parte inutili panegirici, l’elezione del prossimo Capo dello Stato potrebbe essere viziata tanto nella forma quanto nella sostanza.  Intanto, perché, sul piano della forma, ci troviamo a gestire i conti con candidati “indicati” prima della votazione e che paiono aver accettato sotto-banco, e preventivamente, di esserlo (lo stesso Mario Draghi, come pure Silvio Berlusconi) solo per testare anticipatamente il campo ed accordarsi, magari, in un secondo momento, sui rispettivi ruoli. Quindi, perché, sul piano della sostanza, la scelta dei Grandi Elettori, e soprattutto dei cosiddetti franchi tiratori (più numerosi di quel che si possa immaginare), sarà inevitabilmente condizionata dall’esigenza asfittica di evitare il ritorno alle urne nel prossimo immediato futuro, con ogni conseguenza degenerativa rispetto alla legittimità nell’esercizio della preferenza siccome, di fatto, si andrà ad indicare Colui, e solo Colui (il Colei, nella circostanza, appare inutile ed illusorio considerata la mancanza di Donne sufficientemente rappresentative per la Carica), che possa continuare a garantire la stabilità dell’attuale assetto di governo. Infine, perché l’ipotesi dai più ribattezzata del “semipresidenzialismo de facto” a spinta Drago-Centrica prima ancora che Politica-Berlusconiana, costituisce, né più né meno, che il tentativo estremo di sottrarre al Popolo, rimasto Sovrano solo sul piano definitorio laico, l’unico Potere ancora pericolosamente esercitabile: il voto.

Se questo non appaia quale un atteggiamento sovversivo (apparentemente) congegnato ad arte, ditemi voi cosa altro mai potrebbe essere. Anche a tutto voler considerare, si finisce per ritornare all’assioma di partenza: cambiare tutto perché tutto resti esattamente come è. Non c’è più nulla di cui stupirsi. Si tratta solamente dell’esito patologico conclamato anticipato, nei mesi addietro, dalla ricorrenza costante di taluni sintomi indicati in appresso: la frattura nel rapporto “fiduciario” con le figure politiche di immediato riferimento, l’astensionismo dilagante, la evanescenza nelle scelte di voto, la inconcludenza temporale e sostanziale dei governi, instabili per definizione ed inconcludenti per conseguenza.

Questo appare essere lo stato dell’arte nel momento più critico che la storia repubblicana possa ricordare. Eppure il giorno 3 del mese di febbraio dell’anno 2022, praticamente dopo-domani, Sergio Mattarella porterà a conclusione il suo mandato e non sembra affatto intenzionato ad avallare l’ipotesi di un mandato-bis che, sebbene irrituale, rappresenterebbe il tentativo ultimo di portare in salvo quel che ancora sopravvive sul piano dell’indirizzo democratico e della linea direttrice istituzionale. Di sicuro, e salvo sorprese, il nuovo Presidente dovrà essere eletto dal Parlamento in seduta comune, ridotto nel caso specifico ad evanescente ectoplasma conformante, a scrutinio segreto (si fa per dire nella specifica circostanza ove l’enunciato “io so che tu sai che egli sa” si pone quale motto qualificante dell’azione degli Elettori) e a maggioranza di due terzi dell’Assemblea, con sufficienza della maggioranza assoluta dopo il terzo scrutinio. Nulla quaestio, anche se tanto ci sarebbe da dire, se, quanto meno, venissero garantiti i principi basilari posti a fondamento della legittimità della elezione.

Ma abbiamo realmente bisogno di un uomo della provvidenza, se di provvidenza si abbia veramente il coraggio di discorrere? Abbiamo davvero bisogno di un Presidente che sia espressione banale di centro-destra o centro-sinistra? Il prossimo Presidente della Repubblica dovrà necessariamente essere espressione dell’una o dell’altra coalizione, oppure dovrà semplicemente essere “partium solutus” ed esprimere, più opportunamente, gli interessi del Popolo?

Gli interrogativi sono evidentemente retorici, ma credo condensino bene la problematicità del processo decisionale. Soprattutto allorquando si voglia far passare per veritiera ed incensurabile una narrazione deforme che pretende di identificare Mario Draghi con Charles De Gaulle, “sceso dal Cielo in Terra” (parafrasi del celebre sonetto Dantesco della “Vita Nuova”) a l’unità nazionale garantire, e Silvio Berlusconi quale Cavaliere impresentabile solo perché ritenuto aprioristicamente tale da certa politica incline a porsi quale esempio moralizzatore di una morale tutta ancora da definire e da valutare nella sua portata oggettiva e generale.

Del resto, anni orsono, Qualcuno disse: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Ma questa è un’altra storia rimasta peraltro incompresa solo perché scomoda e poco conveniente sul piano pratico. Di certo, il complesso istituzionale italiano, ed i politici di turno, fallimentari per loro stessa ammissione, debbono ritrovare il coraggio di tornare protagonisti, nel bene e nel male. Debbono ritrovare il coraggio di archiviare Mario Draghi ed ogni ipotesi ulteriore di Governo Tecnico ad andamento ondulatorio, e debbono ritrovare il coraggio di sottoporsi al giudizio del Popolo, di riscoprire le urne quale momento di confronto democratico e resa dei conti. Il Popolo deve tornare ad essere seriamente Sovrano. Basta tatticismi, basta espedienti deformanti. Occorre procedere per gradi, ma con gradualità decisa e costante. Uno soltanto l’imperativo categorico: evitare di affidare alle mani di un Tecnico estraneo alla politica non soltanto il Quirinale, ma financo la contestuale direzione dell’esecutivo, giacché la cristallizzazione di siffatta evenienza costituirebbe una violazione macroscopica dei principi Costituzionali: vogliamo davvero un Presidente della Repubblica che esercita pure i poteri di governo? Meditiamo. Sarebbe il paradosso di tutti i paradossi, il definitivo “default” della democrazia repubblicana e dei partiti con l’Uomo Solo al Potere a farla da padrone indiscusso ed indiscutibile. Fermiamoci, finché siamo ancora in tempo, e scegliamo un Presidente della Repubblica Costituzionalista, garante effettivo dell’interesse nazionale contro l’opportunismo di “bottega”.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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