Neppure Giorgia sembra essere riuscita a resistere alla tentazione di cedere a quella che viene normalmente definita “retorica infiammatoria” diretta ad indebolire un certo avversario politico, nella specie il Partito Democratico alle prese con il caso “Soumahoro” e con le questioni riconnesse al “Quatar Gate”. E, come probabilmente era da attendersi, parrebbe aver intrapreso, in qualche misura, il sentiero che già fu del suo amico ed alleato Matteo Salvini nella lotta al fenomeno immigratorio in tutta sua complessità umana e giuridica, siccome in qualche modo individuato, siffatto fenomeno, quale elemento di incertezza e disagio sociale sul piano nazionale interno. Ammesso e non concesso che il clima di incertezza e disagio sociale rilevabile all’interno del Paese dipenda realmente dal persistere dei flussi migratori. I quali, invero, certamente andrebbero gestiti attraverso la elaborazione di politiche ad hoc, ma che, altrettanto certamente, non possono, né devono, essere offerti alla attenzione generale dei consociati, e quindi di conseguenza percepiti, come l’origine di tutti i “mali” solo per tentare di favorire il sostegno della popolazione verso un apparato governativo che si presenti come disposto a difendere il Paese medesimo (rectius: i confini) da una sorta di non meglio qualificabile “minaccia” proveniente dal mare.

Diciamolo altrimenti: una Democrazia che voglia dirsi realmente forte, non può prescindere da canali informativi, anche politici, che siano, o aspirino ad essere altrettanto calibrati. Si tratta di logica: nulla di più, nulla di meno. In questo contesto di confusione sembrerebbe aver visto la luce, o quasi, il nuovo annunciato decreto sicurezza licenziato, nelle sue linee essenziali, dall’ultimo Consiglio dei Ministri che, nei propositi vorrebbe rendere più complessa e tortuosa l’attività delle cosiddette Ong, ossia delle Organizzazioni Umanitarie, al fine di ricondurle (questo sarebbe il proposito) al rispetto del diritto internazionale.

Ammesso e forse non concesso (dobbiamo attendere di poterne apprezzare il testo) che quel decreto, quello stesso diritto, lo rispetti per primo. Intendiamoci meglio: se l’intenzione dell’attuale Governo fosse (il condizionale è d’obbligo) davvero quella di “limitare”, riducendola alla insignificanza, la possibilità di salvare vite in mare amplificando grandemente i costi del soccorso e/o imponendo la richiesta immediata di un porto sicuro in conseguenza del solo primo intervento sottoponendo a specifica autorizzazione i successivi, allora il “vulnus” ad ogni buon diritto di salvaguardia dell’incolumità umana sarebbe evidente per la semplice, quanto dirimente circostanza, che un qualsivoglia salvataggio, per definizione, imporrebbe, come di fatto impone, l’immediatezza dell’intervento che, chiaramente, non può assolutamente essere condizionato dai tempi tecnici della burocrazia e delle “carte”. Soprattutto allorquando l’atto del salvare vite umane costituisca un vero e proprio imperativo categorico imposto da tutte le Convenzioni e Leggi Internazionali aventi, sul piano delle fonti del diritto interno, lo stesso valore giuridico della Carta Costituzionale. E se la Costituzione, come puntualmente ha ricordato Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, deve essere sempre la nostra bussola, allora ogni deduzione conseguente sembrerebbe porsi e imporsi in tutta la sua immediatezza. Tanto più allorquando, ed a ben considerare, anche a prescindere dalla zona SAR in cui avvenisse il primo soccorso in mare, quelle stesse Convenzioni prevedano che il primissimo “Maritme Rescue Coordination Center” che avesse notizia della “criticità” pure verificatasi all’esterno della propria area di intervento, debba assumersi la responsabilità di gestire la circostanza fino alla sua presa in carico da parte dello Stato di Competenza.

Come potrà districarsi Giorgia Meloni dinanzi alla necessità di garantire, per un verso, il rispetto della normativa vigente e, per altro verso, di gestire, assecondandola, la richiesta persistente di “difesa dei confini” degli alleati del Carroccio?

Il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri è disposto ad abbandonare una volta per tutte la retorica emergenziale nella gestione dei flussi attraverso la abolizione della legge Bossi-Fini, entrata in vigore nell’anno 2002 sotto il Governo Berlusconi bis, utile a favorire l’introduzione di vero ed unico sistema europeo per la gestione dei flussi medesimi? Il nostro Presidente del Consiglio è disposto ad abbandonare, in nome del buon governo, ogni dinamica diretta a “politicizzare” puramente e semplicemente il fenomeno immigratorio, per farlo finalmente assurgere alla dignità di fenomeno umano di massa necessitante di una seria ed efficace regolamentazione nel nome dell’accoglienza e dell’integrazione?

La risposta a siffatti interrogativi, infatti, è tutt’altro che priva di conseguenze. Intanto perché, il voler insistentemente proseguire sulla via dell’insofferenza al fenomeno solo per riuscire a gestire i timori del presunto scippo di identità, sarebbe chiaro indice di debolezza e mancanza di fiducia verso un Paese tutto sommato forte nelle sue tradizioni e nelle sue credenze. Quindi, perché, l’esasperazione del fenomeno, più che contenere il disordine sociale, potrebbe inconsapevolmente incentivarlo. Ebbene. Giorgia Meloni ha già dato prova di coerenza istituzionale e, certamente, non vorrà “scivolare” proprio su una tematica tanto delicata, dalla cui retta gestione, peraltro, potrebbe dipendere gran parte della sua credibilità sul piano internazionale. Non sempre, infatti, le cosiddette sterzate securitarie riescono a sortire effetti favorevoli: affiora indelebile il ricordo dei respingimenti in mare verso la Libia nel non tanto lontano anno 2009, per i quali l’Italia, nel 2012, veniva sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Tutti concordiamo su un punto: solo ed unicamente una “governance” che non sia incentrata sulla responsabilità di una sola nazione, ma sia condivisa a livello europeo, può ritenersi davvero idonea a gestire le responsabilità imposte dai flussi migratori i quali, lungi dal porsi in modo miope quale affare interno dei singoli Stati di confine appare nel suo essere “affare” del continente europeo nella sua complessità. Ma la circostanza non esime noi dal fare la nostra parte nel pieno rispetto della normativa vigente.

Giuseppina Di Salvatore – avvocato, Nuoro

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