Mario Draghi, in evidente difficoltà politico-gestionale sul piano interno, ha sollecitato all’Europa un accordo con Tripoli per giungere ad una nuova intesa sui migranti: “soldi per fermare i barconi”, finanziamenti comunitari per consentire al neonato esecutivo libico di controllare il “problema” in radice, vale a dire al momento stesso delle cosiddette “partenze”. Inutile dire che la richiesta, espressione della ricerca di un partenariato strategico di scarsissima lungimiranza, diversamente da quanto ha mostrato di ritenere l’attuale Premier, ed in assenza di qualsivoglia garanzia sul piano umanitario, appare discutibile nella forma e nel contenuto: al di là delle criticità di ordine giuridico che inevitabilmente trascina con sé, essa richiesta costituisce la manifestazione tangibile di una incapacità endemica del nostro apparato politico in costante stato di stasi nell’estrinsecazione dei suoi doveri istituzionali. Sebbene, infatti, la ri-definizione del sistema comune di asilo, con riferimento specifico sia alla fase di ingresso che a quella di soggiorno dei migranti, appaia come scelta in qualche modo obbligata e non più procrastinabile in ambito non solo nazionale ma anche e soprattutto europeo, e sebbene sussista una certa confusione organizzativa in merito alle iniziative ed alla direzione da intraprendere, tuttavia, e purtroppo, a cagione del reiterarsi di atteggiamenti inerti, e dell’avvicendarsi di governi “incompetenti”, di “circostanza” quale quello attuale, e poco significativi sul piano internazionale, ci siamo trasformati, nel corso degli anni, in spettatori inconsapevoli di un progressivo processo di “categorizzazione” contrappositiva tra la dimensione del “noi” (autoctoni) e la dimensione del “loro” (stranieri) quali “tipologie” umane declassate al rango di espedienti declamatori atipici siccome inseriti in contesti dialogici che sottendono, verosimilmente, e legittimano, cambiamenti geo-politici assai più significativi e profondi che, a loro volta, presuppongono la continua ricerca e la affannosa predisposizione, e conseguente adozione, di strategie ricorrenti finalisticamente orientate ad impedire, con ogni mezzo, l’accesso al territorio ed al godimento dei diritti che quell’accesso eventuale comporta.

La situazione odierna della Libia ed il conflitto bellico in atto, sotto altro e differente profilo comunque connesso, contribuiscono a complicare la corretta decifrazione di questo “quadro” dai contorni frastagliati. Tanto per cominciare, allora, è appena il caso di chiarire un aspetto preliminare alla comprensione della vicissitudine in esame che si pone in rapporto di causa/effetto rispetto alla potenziale efficacia e praticabilità degli “accordi bilaterali” da ultimo sollecitati dal governo centrale nella sua espressione soggettiva incarnata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi, che nell’affare “migranti” mette in gioco, rischiando di comprometterla irreversibilmente, tutta la sua credibilità: quello per cui, con buona pace di tutti, nulla potrebbe cambiare laddove non fosse possibile considerare la Libia come Paese formalmente e sostanzialmente sicuro per migranti e richiedenti asilo.

In buona sostanza, ammessa ma non concessa la praticabilità e l’efficacia solutoria dei richiesti “accordi bilaterali”, allo stato attuale andrebbe preteso, quanto meno, che la definizione di “Paese sicuro”, qualunque esso sia, sia rigidamente ancorata alla sussistenza di parametri qualificatori ben determinati, idonei a costituire il fondamento giuridico di pratiche altrimenti illegittime e squalificanti sul piano della compatibilità con le Convenzioni Internazionali in materia, ed in particolare, con la Convenzione di Ginevra del 1951 e del suo successivo Protocollo. Un po’ come pretendere la proverbiale “luna nel pozzo”. Finora, tuttavia, ed al di là di quanto sarebbe formalmente e sostanzialmente auspicabile, questo sistema di apparente politica di sicurezza, fondato sugli “accordi”, peraltro variamente e vanamente sottoscritti anche nel corso degli anni passati, e basato, nei fatti, sulla negazione e sull’annullamento dei diritti dei migranti, ha solo contribuito ad accentuare il processo di cristallizzazione e contestuale consolidamento di “pratiche” poco ortodosse risoltesi, il più delle volte, in eccessi linguistici qualificatori di forme di intolleranza profondamente radicate, e di cui gli hashtag “porti chiusi” e “difesa dei confini nazionali” di salviniana memoria hanno costituito, di recente, l’espressione più nitida.

Occorre, più correttamente, guardare al fenomeno attraverso tre distinte angolazioni prospettiche: quella relativa alle conseguenze del processo di cosiddetta “esternalizzazione del controllo delle frontiere”, ed alla sua conseguente e legittima praticabilità; quella relativa alle interazioni esistenti tra gli accordi internazionali dell’Unione Europea e gli accordi conclusi dai singoli Stati Membri nell’ambito della specifica materia; quella relativa alla questione euro-mediterranea nel suo complesso la quale, attualmente, rinviene il fondamento della sua stessa articolazione concettuale nella consapevolezza che ancora allo stato attuale esiste, ed è imperante, uno squilibrio significativo tra ciò che è, e ciò che dovrebbe essere, e prima ancora avrebbe dovuto essere, la dinamica della distribuzione dei richiedenti asilo, la quale, paradossalmente, continua a registrare gli ostacoli maggiormente resistenti proprio nel ricorso sistematico a pratiche inaudite di criminalizzazione strategica, di stigmatizzazione preordinata e di delegittimazione autorizzata di quanti abbiano l’ardire di volersi elevare a difensori dei diritti umani.

Ebbene: gli attuali sviluppi geopolitici e istituzionali interni ed esterni all’Unione in sé e per sé considerata, tali essendo le premesse argomentative, inducono a riflessioni che lasciano poco spazio a giustificazioni di circostanza. Intanto, perché ogni dinamica unidirezionalmente ed acriticamente orientata al perseguimento di modelli di “esternalizzazione” del controllo delle frontiere e dei potenziali rifugiati determina, quale sua conseguenza ineludibile, la creazione, e la conseguente inaccettabile legittimazione, di un vuoto di tutela a favore dei migranti, siano essi “economici” o più significativamente “politici”,  siccome si traduce nella negazione, “a priori”, ed in piena violazione delle norme vigenti, di ogni possibilità di accesso all’interno di un territorio ben qualificato in termini di “sicurezza”.

Quindi, perché se il paradigma interpretativo applicabile al rapporto tra accordi conclusi dagli Stati Membri e Accordi conclusi dall’Unione in ordine a medesime questioni, nel caso che ci occupa quella “migratoria”, continua ad essere correttamente identificato nel principio costituzionale di “leale cooperazione”, e continua ad essere, altresì, compiutamente sottoposto alla cosiddetta rispondenza alla “clausola di compatibilità”, allora, appare evidente che il punto di frattura ostacolante l’efficace applicazione di qualsivoglia iniziativa utile, con buona pace di Mario Draghi, è costituito proprio dal suo presupposto applicativo: ossia il tanto agognato principio di “leale cooperazione”, stante la costante ritrosia di taluni Stati Membri a condividere i percorsi re-distributivi pure programmati sulla carta ma mai portati a compimento.

Infine, perché a tutt’oggi, e nonostante la indiscussa rilevanza della questione anche nell’ottica della migliore gestione degli sbarchi, il cosiddetto partenariato euro-mediterraneo, nel suo essere contesto geo-politico strategico, e la politica europea di vicinato, appaiono come obiettivi lontani e astrattamente futuribili nell’ottica del perseguimento di una volontà politica che miri compiutamente alla realizzazione di un progetto di democratizzazione e di promozione dei diritti umani.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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