Discorrere nei termini drastici di una vera e propria “iattura” probabilmente potrebbe apparire anacronistico se non addirittura fuori luogo, eppure, nel rapido avvicendarsi dei giorni e con l’avvicinarsi dell’appuntamento referendario, faccio davvero fatica a sgomberare la mente da questo pensiero: ogni qualvolta un certo Governo abbia voluto “violare” la Carta Costituzionale, sistematicamente è andato incontro ad un pregiudizievole regolamento dei conti che ne ha determinato la caduta o il successivo insuccesso elettorale. Accadde al centro-sinistra nel 2001, accadde al centro-destra nel 2006, ed è recentemente accaduto a Matteo Renzi nel 2016 il quale, nell’annunciare le sue dimissioni a seguito del flop referendario, aveva significativamente affermato: “Volevo ridurre il numero delle poltrone: la poltrona che salta è la mia”.

Conseguentemente, “mutatis mutandis”, faccio parimenti parecchia fatica nell’evitare di interrogarmi su quello che sarà, nel prossimo futuro, il destino dell’esecutivo giallo-rosso, dei singoli partiti che lo compongono e lo animano pur nella loro disarmonica diversità, della democrazia rappresentativa, del multipartitismo esasperato comunque pur sempre curiosamente ed impropriamente “bipartitico” (siccome espresso dalle due maxi-coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra) che caratterizza la forma di governo parlamentare italiana definita, peraltro, dagli esperti “a debole razionalizzazione” siccome notoriamente incapace di assicurare la stabilità del rapporto di fiducia nonché la capacità di direzione politica del Governo. E, allo stesso modo, non posso fare a meno di riflettere su quelli che saranno, se ci saranno, gli effetti e i riflessi degli esiti del voto sul piano internazionale.

Un’idea precisa, del tutto personale, l’ho maturata sia pur faticosamente. E questa stessa idea non riesce a prescindere dalla considerazione che, talvolta, il concatenarsi di accadimenti apparentemente e casualmente simili non sempre si traduce nel necessario e costante ripetersi dei loro esiti. Prima di entrare nel vivo del mio convincimento, tuttavia, ritengo opportuno, se non proprio doveroso, liberare il campo di indagine da quelli che, secondo il mio pensiero, sono taluni frequenti “fraintendimenti” teorico/argomentativi che rischiano, oggi più di ieri, di compromettere il corretto inquadramento della questione inerente gli effetti, sul piano politico/governativo, del potenziale “taglio del numero dei parlamentari” e quindi la loro corretta comprensione: quello per cui, in un clima di crescente conflittualità partitica, ogni modifica della Carta Costituzionale debba necessariamente ed efficacemente essere affidata agli incerti e grotteschi umori della sola maggioranza di turno giacché, all’evidenza, se così fosse, come davvero parrebbe essere nel caso specifico, quella stessa modifica non sarebbe, come di fatto non è, espressione di un convincimento condiviso espressivo dell’unità del Paese al di là e oltre le lacerazioni politiche interne; quello per cui l’invocata modifica costituzionale avrebbe, in sé e per sé considerata, un impatto risolutivo/provvidenziale, se solo si considera che, diversamente da quanto hanno mostrato di ritenere i giallo-rossi, ma soprattutto i giallo-stellati, la credibilità di un governo non può mai dipendere da un puro e semplice automatismo istituzionale ma appare piuttosto regolata e determinata da più complessi coefficienti di stampo squisitamente politico; quello ulteriore per cui il processo di progressiva delegittimazione della classe politica possa paradossalmente condurre, col trascorrere del tempo, alla sperimentazione di inedite forme di governo meno sorde nell’assecondare le reali esigenze della società italiana siccome presuntivamente (ma non necessariamente) incentrate sulla “realpolitik”, ossia sul pragmatismo politico puro che, guarda caso, ironia della sorte, e in barba ad ogni ispirazione anti-casta penta-stellata, fu proprio solamente dei vari governi succedutisi nel corso della Prima Repubblica.

Se di tale tenore, pertanto, sono le logiche premesse, allora, partendo da una compiuta valorizzazione del significato delle stesse, sarà arduo non riuscire a pervenire ad altrettante conseguenti soluzioni involgenti, per un verso, il necessario rilievo inerente l’inutilità di una legge di revisione costituzionale di cui davvero non si sentiva alcun bisogno perché portata avanti solo sulla scia di rigide, quanto inconcludenti, spinte demagogiche populiste del tutto disancorate dall’armonica conservazione dell’equilibrio dell’intero impianto costituzionale, e per altro verso (involgenti) l’ulteriore rilievo per cui, nonostante l’accavallarsi di spinte ideologiche multidirezionali, tanto in seno alla maggioranza quanto in seno all’opposizione, tuttavia, l’esito del referendum confermativo, qualunque esso sia, se gestito con intelligenza e lungimiranza, finirà per incidere davvero in misura minimale sul destino dell’attuale esecutivo unitariamente considerato. Piuttosto, quell’urna così bollente, potrebbe riverberare risvolti e contraccolpi interessanti, soprattutto nell’ipotesi di vittoria del fronte del “no”, sia rispetto alla compagine penta-stellata (ma anche rispetto a quanti si siano dichiarati favorevoli al taglio, sovranisti compresi), sia rispetto alla compagine Dem singolarmente considerate. Che il “taglio lineare” sia stato voluto e poi promosso dal Movimento 5 Stelle, infatti, è indubbio, quindi, di conseguenza, appare altrettanto indubbio che il relativo referendum non potrà che porsi, in qualche modo e indirettamente, nei termini veri e propri di una “consultazione diretta” sulla ragion d’essere dello stesso Movimento, il quale, nell’ipotesi di vittoria del fronte del “no”, esaurirebbe il presupposto giustificativo della sua stessa esistenza siccome imperniato in maniera assolutistica, quel presupposto si intenda, sul livore irragionevolmente esacerbato nei confronti della classe politica genericamente intesa (di cui lo stesso Movimento fa oramai parte) che, a suo tempo, ne aveva garantito l’affermazione e l’ascesa.

Diversi, invece, si pongono i termini della riflessione allorquando si volga lo sguardo verso il Partito Democratico, il quale, lo ricorderemo tutti, malgrado i fortissimi malumori interni, solo per bieco calcolo compromissorio si è ritrovato nella condizione di dover “mercanteggiare” a basso costo la propria ideologia programmatica in nome di un non meglio definito equilibrio di governo che, in fondo, nessuna delle parti interessate, era ed è davvero in grado di garantire. Sicché, curiosamente, se dovesse prevalere il fronte del “no”, il Partito Democratico ne riuscirebbe rafforzato al proprio interno acquistando, contemporaneamente, una posizione di vantaggio sul proprio contestato alleato all’interno di una maggioranza di governo in cui il vero fattore “X” determinante resta sempre e comunque il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte e il suo crescente consenso popolare specie in un momento, quale quello attuale, in cui proprio il PD, “mutilato” in radice da un segretario “tiepido” e scarsamente incisivo, si ritrova ad attraversare un periodo assai difficile di trasformazione segnato dalla propria incapacità di tradurre i nuovi paradigmi ideologici e dialettici della comunicazione politica moderna in una valida e rinnovata linea di pensiero e di azione: fortissimo in diverse realtà territoriali grazie all’impegno, alla competenza ed alla serietà dei suoi rappresentanti locali, si mostra, invece, disorientato e scarsamente incisivo a livello nazionale.

Alla luce di quanto argomentato, pertanto, e nella consapevolezza che ad ogni buon conto l’esito di una consultazione referendaria si traduce pur sempre in una valutazione a posteriori sulla capacità di tenuta del Governo in carica e sulla sua idoneità a tradurre in soluzioni apprezzabili le criticità interne legate alla crisi occupazionale e alla mancanza di coesione sociale, è appena il caso di sottolineare che quand’anche l’esito del voto non si rivelasse “punitivo” nei confronti della “causa” grillina, sarebbe comunque un gravissimo errore di prospettiva persistere nel convincimento di voler rinvenire la ragion d’essere della “patologia” del sistema in seno ai meccanismi di funzionamento delle istituzioni strutturalmente intesi. Il “buon governo” non potrà mai dipendere e/o essere assicurato da considerazioni di carattere tipicamente numerico/strumentale quanto, piuttosto, da più stringenti ragioni meritocratiche di carattere soggettivo che rifuggono, o dovrebbero rifuggire, dalla seduzione di avallare la diffusione di fenomeni di parassitismo pericolosamente mascherati da impulsi moralistici di bassa lega.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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