Sono almeno 30 anni che la nostra Repubblica mostra di avere le idee poco chiare sulle autonomie.

Ricordiamo che la struttura dello Stato italiano era basata sull'ordinamento sabaudo, tradizionalmente diviso in province e comuni. In Assemblea costituente lungamente si discusse sull'idea di introdurre le regioni. Così le regioni furono proprio lo strumento per cercare di "amalgamare" il territorio nazionale, nella differenziazione pluralistica dell'Italia. Il Costituente anche per questa ragione creò le autonomie speciali, isole e territori di confine, con tutte le difficoltà e le particolarità storiche connesse per cercare di favorire uno sviluppo adeguato e flessibile di tutto il territorio nazionale.

Il disegno era chiaro: uno Stato accentrato (articolo 5), uno e indivisibile, pur riconoscendo le autonomie (articolo 114), in tre livelli: regioni, province e comuni.

Questo modello è andato in crisi dagli anni Ottanta del secolo scorso. Troppe regioni, troppe province, troppi comuni. Costosi e spesso poco efficaci, per non parlare degli enti non territoriali (quali comunità montane, consorzi di bonifica, etc.).

Così si è iniziato a dibattere di riforme, con qualche primo intervento di riorganizzazione di province e comuni (legge n. 142 del 1990).

Ma da allora le riforme sono procedute a fisarmonica. Prendiamo la riforma costituzionale del 1999-2001. Prima esaltata e poi deprecata. Perché? Perché è una riforma incompiuta, un tentativo di federalismo. Mancava il Senato delle regioni, che probabilmente era la parte essenziale per completare un sistema veramente federale.

Ma la riforma del Titolo V non solo non è stata attuata, ma ha anche complicato la gestione delle specialità. In quanto da un lato ha appiattito le autonomie differenziate, rendendo le Regioni a statuto speciale troppo simili a quelle ordinarie. E ha fatto scomparire dalla previsione costituzionale la valorizzazione di "Mezzogiorno e isole", per sostituirlo con generici "interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni".

Poi si è intervenuti sulle province. Ridotte, svuotate, quasi cancellate e poi riemerse, a partire da 2011, ma senza alcun risultato concreto se non quello di renderle enti di secondo grado, ancora esistenti, ma con competenze e presenza non ben definite.

Nel frattempo, sono state formalmente istituite le Città metropolitane, ma senza chiarirne ruolo e finalità.

E si è continuato a discutere. Fino al tentativo di attuazione dell'articolo 116, terzo comma. Cioè delle forme ulteriori di autonomia speciale che erano un corollario della riforma del 2001 e che sono diventate una bandiera politica per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Con una battaglia poi "dimenticata" con il passaggio fra il governo Conte I e il Governo Conte II, e la traslazione della Lega all'opposizione.

E ora? Ora mi pare che nessuno parli più di autonomie, anche perché manca un disegno chiaro. Quel che è certo è che l'attuale modello non funziona. Con i presidi statali che perdono la loro presa sui territori e con le aree meno sviluppate del paese che faticano sempre di più e le irrisolte "questioni meridionali" che si aggravano.

È necessario avviare un dibattito serio sulle autonomie, indispensabile per rilanciare lo sviluppo del paese e dei territori.

Alfonso Celotto

(Ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre, capo dell'ufficio legislativo del Mise)
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