Le regioni del meridione d’Italia, e con esse quelle insulari, sia pure con gli opportuni distinguo, continuano a patire ancor oggi una condizione di persistente arretratezza economico-culturale rispetto alle regioni del settentrione. La crisi finanziaria internazionale, infatti, accentuata di recente dall’emergenza pandemica, ha indubitabilmente travolto l’intero Mezzogiorno e le Isole in misura più intensa sia rispetto al resto dell’Italia, sia rispetto all’intera Eurozona, sicchè, nel contesto generale, è piuttosto deludente constatare che la annosa “questione” non può che continuare a porsi contemporaneamente sia nei termini ristretti di dicotomico antagonismo tra le tre summenzionate macro-aree a livello nazionale (Nord, Sud e Isole), sia nei termini estensivi ed omnicomprensivi di “scarto” cronico differenziato a livello europeo tra l’Italia interamente considerata ed il resto degli altri Paesi Membri. E’ appena il caso di precisare, al proposito, onde evitare equivoci fuorvianti, che diversamente da quanto si sarebbe indotti a ritenere, le politiche europee non hanno minimamente inciso nel lungo processo di cronicizzazione di siffatto divario causato, piuttosto, e semmai, sia dal sindacabile utilizzo dei fondi comunitari per lo sviluppo del mezzogiorno, i quali avrebbero dovuto assumere valenza integrativa e non meramente sostitutiva rispetto alle risorse nazionali eventualmente da destinarsi in tal senso, sia dal “colpevole” atteggiamento di “disattenzione sistematica” nei confronti della spinosa “questione” perpetrato tanto dai governi di centro-destra quanto da quelli di centro-sinistra succedutisi nel corso degli anni, nonostante fosse consapevolezza comune, per molti versi “negata”, che l’unico percorso praticabile per uscire dall’impasse non potesse che condurre alla logica e doverosa determinazione di procedere nel senso dell’applicazione di un regime fiscale differenziato tra il settentrione, il meridione e l’area genericamente detta insulare pur nella persistente conservazione del principio di unitarietà nazionale. Sulla scorta di siffatte premesse, allora, non possiamo che salutare con cauto e moderato ottimismo il varo del c.d. “Decreto-Legge Agosto” n. 104/2020, il quale, per usare le parole del Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, sembrerebbe realizzare “un intervento di portata storica per il Sud” attraverso l’introduzione, a far data dal prossimo primo ottobre, di taluni meccanismi di fiscalità di vantaggio che, sebbene temporalmente limitati ad un arco temporale di appena tre mesi, tuttavia dovrebbero rivelarsi idonei a favorire il processo di reindustrializzazione. A sostegno del Mezzogiorno, in particolare, viene introdotto uno sgravio del 30% sui contributi pensionistici a favore delle aziende situate nelle aree svantaggiate, nonché l’esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali per un periodo massimo di sei mesi per coloro che dovessero assumere nuovi lavoratori a tempo indeterminato entro il 31 dicembre 2020. Nulla quaestio dunque. Ogni intervento, sia pur minimo e per ciò stesso inevitabilmente insufficiente, che miri a riequilibrare il divario tra il settentrione ed il meridione va accolto con placida benevolenza di circostanza. Ma la misura, peraltro temporanea, può rivelarsi utile allo scopo nel lungo periodo in assenza di un solido programma strutturale di interventi che preveda anche misure economiche ulteriormente differenziate per le aree insulari del Paese, nella specie quella sarda, la quale, rispetto al resto del meridione d’Italia, insulare e non, patisce condizioni più gravose di sottosviluppo ed arretratezza dovute in larga parte ai disagi ingenerati dalla sua stessa collocazione geografica che la rende inevitabilmente un polo marginale rispetto ai flussi del commercio interno ed internazionale? Come dobbiamo interpretare le parole di Stefano Bonaccini, brillante Presidente della Conferenza delle Regioni, il quale, pur riconoscendo che “al Paese, troppo diseguale, ingiusto e inefficiente, occorr (a) una strategia per il Mezzogiorno”, tuttavia, con atteggiamento forse solo apparentemente critico, ha voluto quasi sottolineare l’inopportunità dell’introduzione di una qualche forma di “fiscalità di vantaggio per aree, settori o categorie” dicendosi convinto che il “lavoro si cre (i piuttosto) con gli investimenti pubblici e privati”? Esiste, oggi come oggi, una questione settentrionale da contrapporre a quella storica meridionale? E se davvero dovesse esistere, che senso mai potrebbe avere in un Paese che nel bene e nel male ha sempre fatto del principio di unità nazionale un baluardo incorruttibile? Rispondere non è affatto semplice, ma credo che ogni tentativo di offrire una soluzione credibile ai quesiti proposti non possa prescindere dall’insegnamento tramandatoci dall’esponente di punta del patriottismo risorgimentale Giuseppe Mazzini: “l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà”. Intanto, perché il dislivello esistente tra le due macro-aree del paese, ma appare quanto mai doveroso non dimenticare anche quella tipicamente insulare, non può considerarsi come problema caratteristico di un singolo e perimetrato contesto territoriale incapace di reagire al generale processo di opacizzazione culturale, politica ed amministrativa che oramai lo attanaglia da anni e lo rende inidoneo a porsi quale polo attrattivo di investimenti produttivi, ma deve essere concepito ed affrontato in una dimensione necessariamente statale onde evitare che il Mezzogiorno (e con esso le Isole maggiori) possa restare incagliato in un processo di vorticosa retrocessione produttiva le cui conseguenze, nel breve, come nel lungo periodo, non potranno che ricadere, come di fatto già ricadono, sull’intero perimetro nazionale ed europeo. Quindi, perché, di conseguenza, ed attribuendo alle parole del Presidente Bonaccini una valenza positiva, la misura contenuta nel Decreto Agosto, si sostanzia in realtà, e quanto meno per il momento, in una minima misura compensativa, per non voler dire assistenzialistica, che se non accompagnata da costanti investimenti a lungo termine riuscirà unicamente a sortire gli effetti di un timido palliativo di circostanza completamente inutile sul piano pratico, soprattutto allorquando, come nel caso che ci occupa, si insista nel voler considerare come valide soluzioni propagandistiche virtuali che abbiano la pretesa di prescindere dalla necessarietà di concreti investimenti nelle grandi infrastrutture, senza le quali, all’evidenza, qualsivoglia iniziativa politica industriale nel meridione d’Italia sarebbe, come di fatto è, inesorabilmente destinata a fallire. Infine, perché, sebbene con il diffondersi dell’emergenza pandemica siano riemerse le rivendicazioni e le rivalità territoriali, appare alquanto anacronistico contrapporre una nuova questione settentrionale a quella storica meridionale nell’ambito di un contesto regionalistico, quale quello italiano attuale, il quale dovrebbe piuttosto essere ripensato sulla scorta di un modello di federalismo solidale contrapposto all’altro discutibile modello di federalismo competitivo, che attribuisca alle regioni più ricche doveri di solidarietà a favore delle regioni più povere, seppure all’interno di un contesto più generale che individui una precisa responsabilità statale nella perequazione. “L’Italia è un grande Paese anche se va a due velocità. Se non riduciamo la differenza, non riusciremo mai a decollare” (cfr. Renato Schifani).

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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