Il Governo Meloni parrebbe mostrare le sue primissime crepe: le misure relative al cosiddetto super-bonus, o bonus edilizi che dir si vogliano (la sostanza non cambia), lasciano con più di un amaro in bocca famiglie e imprese determinando non poche e significative, a ben considerare, flessioni pure all’interno della stessa maggioranza di governo.

Sia chiaro: nessuno attendeva miracoli, e al di là dei risultati rilasciati dalle ultime urne, il dato chiaro ed evidente, sussumibile nell’elevata percentuale astensionistica, parrebbe quello riflettente l’atteggiamento quasi di rassegnazione che sembra pervadere la popolazione, divisa tra la consapevolezza delle “ragioni” della “ragione” e il sentimento delle motivazioni, certamente stringenti, poste a sostegno dei “bisogni” legati alla conduzione della quotidianità contingente.

La contrapposizione, sia pur rappresentata nei termini della sua necessarietà, andrebbe spiegata meglio, soprattutto in considerazione del malcontento di recente palesato dalle categorie interessate e colpite dagli effetti del provvedimento da ultimo citato. Se non altro al fine di evitare che a prevalere sia la sensazione che l’esigenza di realità, con tutte le sue contraddizioni, prevalga sempre e comunque sulle legittime aspettative di quanti, nel fare affidamento sulla permanenza nel tempo di talune disposizioni normative di favore, abbiano avviato investimenti pure di considerevole consistenza.

Sarebbe, come di fatto parrebbe essere, errato, e addirittura financo incostituzionale, interrompere “tout court” l’efficacia di provvedimenti già approvati e in qualche modo giuridicamente cristallizzati per essere stati in moltissimi casi posti in essere sia pure non ancora portati al loro compimento. Dicendolo altrimenti: seppure l’esigenza alla base della “stretta” parrebbe risiedere nella necessità di scongiurare danni al bilancio dello Stato, tuttavia, e nel contempo, non può in alcun modo passare in secondo piano la superiore esigenza non solo di garantire la posizione di quanti, in forza di un più che legittimo affidamento, fondato sulla pretesa stabilità e permanenza nel tempo dei provvedimenti legislativi, abbiano promosso investimenti di consistenza, ma anche quella di assicurare la soddisfazione dei bisogni essenziali di coloro che, travolti dalle difficoltà del quotidiano, non riescano neppure a sbarcare il lunario.

E allora: a quale delle due esigenze, il Governo, nell’assumersi il compito di essere diligente come il “buon padre di famiglia”, dovrebbe assicurare la prevalenza? La risposta non può che essere unidirezionale e financo luminosa nella sua ovvietà siccome ogni misura decisoria direttamente incidente sulla vita dei consociati non può che essere calibrata sulla tenuta tanto dei conti pubblici quanto su quella sociale, con ogni conseguenza immaginabile sul piano della contraddittorietà (inevitabile) dei fini esprimibile all’atto pratico della sua applicazione.

In questo senso non può che essere accolto con favore l’intervento del partito degli azzurri il quale, lo ricordiamo, ha sottolineato l’esigenza di apportare “utili modifiche”. Del resto, se così non fosse, con buona verosimiglianza potrebbero evidenziarsi i segnali delle prime fratture ideologiche esistenti tra le componenti di maggioranza. E certamente la circostanza non gioverebbe alla stabilità di un esecutivo forse già in bilico. Dicendolo ancora altrimenti, e trasponendo il senso del discorso sul piano più squisitamente politico, quanti aspirino a ricoprire posizioni apicali di governo dovrebbero, probabilmente, prestare la loro doverosa attenzione ai tre piani di intervento diretto e immediato: il primo, ossia quello interno; il secondo, ossia quello coincidente con il versante europeo; e il terzo, ossia quello riflettente i rapporti, doppiamente complessi, con il mondo atlantico e con l’atlantismo propriamente detto.

Intanto, perché sarà oltremodo doveroso, nel prossimo futuro, e anche al di là degli ultimi provvedimenti, capire cosa il Governo abbia inteso significare nel momento in cui si è parlato di sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza, che comunque per tante famiglie ha rappresentato un’ancora di salvezza, con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro. Perché se è vero, come è vero, che in taluni casi la misura parrebbe essere andata a vantaggio anche di “non meritevoli” (si passi l’espressione), tuttavia ciò non toglie che si debba essere precisi e concreti nel momento in cui si vogliano discutere temi attinenti alla cosiddetta questione sociale, la quale, invero, presenta elementi di complicanza tali da non poter essere risolti con un dibattito sulla opportunità o meno di una misura di sostegno quale è stata ed è il reddito di cittadinanza.

Nulla quaestio sulla circostanza per cui la soluzione ideale, caldeggiata dalla maggioranza di Governo, sia trovare un impiego a chi è in condizioni di lavorare offrendo, nel contempo, un sussidio a chi non versi nelle condizioni di farlo. Ma si può concretamente realizzare? Quale è attualmente, e quale sarà, presumibilmente, sulla base di una proiezione statistica doverosa, la possibile verosimiglianza della riuscita di un siffatto intento alla luce del rapporto tra l’offerta e la domanda di lavoro? L’attuale Governo, fatti alla mano, può dirsi espressione di quella “destra sociale” pronta a garantire sempre e comunque la tenuta sociale di un Paese con misure parametrate attentamente sulla realtà contingente? Più in generale, è ancora il momento del liberismo economico, oppure l’orizzonte va cambiato, e con esso la attenzione al mercato e alle sue oscillazioni?

Quindi, perché, nel rivolgere lo sguardo verso l’Europa, l’euroscetticismo, o preteso tale, del nostro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sembra aver ceduto il passo ad altre ispirazioni, siccome la leader di Fratelli d’Italia, da donna estremamente pragmatica quale ha sempre mostrato di essere, sembra finora aver tenuto un atteggiamento di parallelismo con le decisioni imposte dalla Commissione europea probabilmente, e in qualche modo, contraddicendo l’ispirazione ideologica del Partito allorquando lo stesso sedeva nei banchi della opposizione. Oramai, a prescindere dal colore dei vari Governi, ciò che in Europa si dice, in tutti i Paesi Membri, Italia compresa, sembrerebbe doversi fare.

Infine, perché sul piano atlantico, nell’essere senz’altro più attenta del suo alleato Matteo Salvini, Giorgia Meloni ha saputo agire con maggiore avvedutezza, non trascurando la circostanza, quanto meno, per cui lo scranno di Palazzo Chigi è sempre stato più vicino a quanti, sul piano politico, mostrassero una linea decisoria compatibile a quella degli USA. Se è vero, come pare esser vero, che l’atlantismo del suo governo di destra, “sociale” o meno lo scopriremo nel tempo, non sarà mai in discussione, tuttavia sarà interessante capire come potranno sopravvivere all’interno della stessa maggioranza di governo queste tre anime che già nella loro nomenclatura presentano tutte le contraddizioni ideologiche che le caratterizzano. Del resto, non sarà forse superfluo ricordare che qualche anno addietro, e salvo errore, Meloni votò la fiducia al governo Monti e poi approvò in Parlamento il decreto Salva Italia votando altresì a favore del pareggio di bilancio in Costituzione. Ma quando si debba fare di necessità virtù, probabilmente, ogni decisione deve trovare doverosamente la sua giustificazione.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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