Generalmente, anche se non è detto al cento per cento che sia così visto e considerato il regolamento generalissimo quanto inusuale delle cosiddette “eccezioni”, con buona approssimazione, quando un Governo, e per giunta ancora allo stato neonatale quale quello di Giorgia Meloni (e che, pertanto, dovrebbe esprimersi in tutta la sua originalità riformista), inizia a voler mettere mano sulla riforma costituzionale, allora, quasi certamente, quello stesso embrionale governo, sembrerebbe esprimere, suo malgrado, tutta la sua debolezza intrinseca ed estrinseca. Intendiamoci: la circostanza, agli occhi dei più, può forse apparire quasi come un paradosso come da più parti sottolineato, sia per ragioni di carattere tecnicamente numerico espresse dalla maggioranza parlamentare, sia per ragioni di carattere relazionale, vista la connessione, quando forzosa, quando di pura e semplice opportunità gestionale, sussunte all’interno di un piano governativo probabilmente ancora povero di contenuti essenziali da riflettere all’esterno.

Tuttavia, e questi primi otto mesi di governo paiono averlo acclarato con sintomatica evidenza, ed in realtà, il governo di destra di Giorgia Meloni si caratterizza per avere una legittimazione popolare assai modesta, chiaramente palesata, per converso, ed ad onore del vero, da una certa “imperfezione numerica” dovuta alla partecipazione al voto del 25 settembre scorso di solamente una minima frangia di cittadini italiani che, con buona verosimiglianza, e con il senno del poi, parrebbero aver voluto esprimere un cosiddetto “voto di reazione”  dal sapore quasi punitivo rispetto alle tradizionali forze politiche di cui era stato composto, fino a quel momento, l’esecutivo.

Se poi si volesse riflettere anche solo un attimo sugli effetti devastanti che, in assenza di ogni opportuno correttivo, la riduzione dei numeri della rappresentanza parlamentare ha prodotto (e la Sardegna ne è stata travolta in pieno visto e considerato che perderà un rappresentante proprio), allora neppure ci sarebbe da sorprendersi, quanto meno sul piano del pregiudizio strettamente riconnesso alla insufficienza del quorum utile a procedere alla Riforma.

Insomma, a conti fatti, ora come allora, ossia al tempo della Riforma Renzi-Boschi, a tradire sono solo, e principalmente, i numeri. In questo ultimo caso, e ricordarlo non nuoce, la proposta di riforma, duramente combattuta dalle allora opposizioni parlamentari e non solo, era andata incontro ad una pur pallida approvazione espressa con i voti di una maggioranza inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera, e di conseguenza, come prescritto dall'articolo 138 della Costituzione, il provvedimento agognato non poteva essere promulgato direttamente quanto, piuttosto, essere sottoposto a referendum popolare i cui esiti, nel bene e nel male, sono a tutti oltremodo noti e hanno segnato in maniera indelebile l’ascesa politica dei suoi proponenti.

Ma se allora il progetto era quanto meno chiaro (ma non troppo) sui contenuti di quella riforma, esplicitati, occorre riconoscerlo, in maniera chiara e ragionata, oggi non parrebbe essersi proceduto parimenti, con ogni conseguenza sul piano non solo della estemporaneità del progetto solo negli annunci riformista, ma anche della sua concretezza e serietà ideologica, visto e considerato che non può ritenersi valido un programma che muovendo dalla nozione di “presidenzialismo” intenda poi degradare a quella di “premierato” senza passare attraverso la benché minima chiarificazione tipologica. Fermo restando che le chiarificazioni, anche a tutto voler considerare, non possono in alcuna maniera essere ridotte allo stato di “optional”.

L’Italia, di tutto sembrerebbe aver bisogno, fuorché di uomini e/o donne soli/e al comando se, come è giusto che sia, l’apparato istituzionale caratteristico della nostra Costituzione sia di carattere parlamentare. Ma il punto di ogni ragionamento è uno e prioritario rispetto a qualsivoglia altro: quale finalità può voler mai conseguire chi intenda rafforzare, attraverso la scelta popolare, o ipoteticamente tale, la legittimazione del primo ministro? Perché sollecitare una modifica del rapporto e della autonomia nelle relazioni tra governo e parlamento? Se, come annunciato dalla stessa Giorgia Meloni, la ragione di tutto vorrebbe risiedere nell’offrire alla cittadinanza solo la opportunità di esprimere direttamente una preferenza, allora, la motivazione rivelerebbe tutta la sua inutilità, fallacia, e dannosità sul piano pratico, posto che, espressa quella ridetta preferenza, il primo ministro resterebbe, verosimilmente, in assenza di qualsivoglia vincolo operativo, assolutamente libero di operare discrezionalmente mettendo a serio rischio ogni garanzia di stabilità.

Insomma, stando a quanto l’esperienza dell’ultimo decennio parrebbe voler insegnare, chi di proclami ferisce di proclami perisce. E anche questa esperienza di governo di destra appare assai deludente sul piano anche solo della chiarezza espressiva che mai dovrebbe difettare. Soprattutto allorquando, come nel caso in esame, si abbia l’ardire di voler procedere alla trasformazione (assai improbabile considerate le premesse) del rapporto tra l’elettorato ed il governo. Lo si può pure dire, intendiamoci, ma poi occorre essere conseguenti, e bisogna esserlo in maniera chiara e risoluta.

Di quali poteri ulteriori Giorgia Meloni intenderebbe disporre nell’esercizio del suo mandato? Quali finalità intende perseguire che, ad oggi, le sarebbero precluse? La Costituzione Italiana ha prerogative uniche nella loro consistenza, tutte armonicamente connesse nel loro impianto originario. Quindi, perché correre il rischio di indebolirne la portata? Non sarebbe forse più opportuno rafforzare il Parlamento ed il confronto democratico all’interno delle istituzioni? Questo dovrebbe essere il punto fondamentale del confronto.

Non si può correre il rischio di privare di contenuti gli organismi democratici in nome di non si sa (allo stato) bene cosa. Ancora di più, allorquando, ogni tentativo di riforma costituzionale parrebbe aver inciso negativamente sul percorso politico dei suoi promotori.

Le esigenze del Paese sono ben altre, e concernono il disbrigo della quotidianità e delle sue esigenze essenziali, e su questi aspetti il Governo dovrebbe concentrare la sua forza di intervento. O si è capaci di farlo, oppure si ridia voce agli italiani attraverso le urne.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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